Pamela Genini, ventinove anni, è stata uccisa a Milano con ventiquattro coltellate dal compagno, che aveva duplicato di nascosto le chiavi di casa per entrare nella sua abitazione.

Nella cronaca di queste ore leggiamo che «voleva lasciarlo», che «lui non accettava la fine della relazione», che «l’ha colpita al culmine di una lite», replicando una sceneggiatura standard che forse si rincorre per dare un senso – e dunque per contenere emotivamente – qualcosa che non si vuole davvero interrogare: il nesso tra la violenza maschile nei confronti delle donne e l’ordine simbolico e sociale che la rende pensabile, fino a farla sembrare un esito possibile delle relazioni.

La violenza viene così tradotta in linguaggio privato, in eccezione, rimossa nella sua natura politica. «Un raptus», «una tragedia», «la gelosia»: la semantica che ricorre nei titoli e nei servizi giornalistici conferma ciò che i femminismi da sempre denunciano — la normalizzazione della violenza maschile e il suo radicamento nelle relazioni quotidiane, nella cultura e nelle istituzioni che non riconoscono e sottovalutano le condotte violente.

Diritto e politica

In Italia le leggi oggi ci sono e sono servite a dare un nome condiviso a comportamenti che per secoli sono stati taciuti o giustificati, addirittura legittimati dai codici, riconoscendo che ciò che accade “nelle relazioni” può costituire violazione dei diritti fondamentali: del corpo, della libertà, della dignità.

Accanto al mutamento del diritto, però, non dobbiamo mai perdere di vista la politica. Oggi tutto il discorso pubblico sulla violenza contro le donne ruota intorno a tre parole: sicurezza, prevenzione, protezione. Ma cosa intendiamo, da femministe, quando usiamo questi lemmi? Sono parole che dobbiamo riempire del nostro significato, perché altrimenti diventano strumenti di nuova subordinazione.

Nel linguaggio istituzionale e mediatico, la sicurezza è declinata come ordine, la prevenzione come moralizzazione dei comportamenti femminili, la protezione come tutela paternalistica. La donna che denuncia viene trattata come soggetto fragile da mettere al riparo, da “salvare”; e così, proprio nel nome della sicurezza, la libertà femminile viene di nuovo limitata: la donna protetta è una donna controllata, la donna messa al sicuro è una donna che scompare.

Oggi si comincia perfino a misurare se la vittima “ha fatto abbastanza” per mettersi in protezione, come se la sopravvivenza dipendesse dalla sua capacità individuale di prevedere, evitare, anticipare la violenza che subisce. È una torsione gravissima del senso di responsabilità, che sposta il baricentro dal dovere dello Stato e della collettività alla performance della donna: ha denunciato in tempo? ha cambiato casa? ha chiesto aiuto nel modo giusto?

Riconoscere la violenza

Così si perde di vista l’importante cambiamento sociale e di crescita dell’identità femminile che oggi viviamo e che sta nel riconoscere la violenza, nel rifiutarla e nel porre fine a relazioni fondate sul dominio. La violenza – fino al femminicidio – è il prezzo di questa consapevolezza delle donne, del coraggio con cui sempre più si sceglie la libertà da una relazione controllante, sfidando l’ordine simbolico e materiale che ancora ci vuole sottomesse o riconciliate.

Nei centri antiviolenza e nelle case rifugio femministe la prevenzione si costruisce nel quotidiano, nelle relazioni tra donne, nella capacità della comunità di riconoscere i segnali e agire prima che sia troppo tardi. È una pratica collettiva, non una responsabilità individuale. La protezione è l’opposto della segregazione: è abitare spazi di libertà e di parola, dove le donne possano ripensarsi fuori dalla violenza, ricostruire legami, autonomia, desiderio.

La sicurezza, infine, non è una promessa dello Stato, ma una qualità del vivere insieme: un bene comune che nasce dalla cura delle relazioni, dalla visibilità dei centri antiviolenza come presidi di democrazia, dalla responsabilità condivisa di fermare gli uomini violenti prima che agiscano.

Abbiamo i nomi per le condotte, e persino il reato di femminicidio è oggi oggetto di discussione parlamentare. Ma la questione non è più soltanto nominare: è imparare a fare uso delle parole, delle leggi e delle pratiche per rifondare le relazioni sociali, perché ogni volta che una donna viene uccisa, come Pamela Genini a Milano, l’impotenza che attraversa la collettività non può tradursi solo in commozione o indignazione.

Deve diventare la forza per interrogare la società su sé stessa: sulle relazioni che produce, sulle gerarchie che continua a legittimare, sulla difficoltà di nominare la violenza come ingiustizia e non come destino.

Solo questo movimento di riflessione e responsabilità può spezzare la continuità che lega la violenza maschile nei confronti delle donne alla normalità delle dinamiche sociali, poiché ogni atto di violenza chiama in causa non soltanto un autore, ma un intero ordine sociale: quello che ancora assegna alle donne la parte di chi deve difendersi se cerca libertà, e agli uomini quella di chi decide se accordarla o meno.

Rompere questa asimmetria – nelle parole, nel diritto, nella vita quotidiana –è la condizione necessaria per una libertà reale, condivisa, generativa.

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