Il corpo della polizia di stato è scosso da uno dei più gravi scandali degli ultimi anni. Forse è il più eclatante, dopo la notte degli orrori e i successivi depistaggi della scuola Diaz a Genova. Era il 2001 e gli agenti entrarono e massacrarono di botte i manifestanti inermi, per poi fabbricare prove false. Quella notte di barbarie ha avuto poi una lunga coda: i capi di allora sono stati promossi, nonostante le evidenti responsabilità, aprendo una ferita lacerante che ha segnato per sempre la nostra democrazia.

Gli scandali non hanno riguardato solo la polizia di stato, ma quasi tutte le forze dell’ordine. Solo per citare gli esempi più noti, c’è il caso di Stefano Cucchi, morto di botte e abbandono mentre era nelle mani dei carabinieri. Quello di Federico Aldrovandi, deceduto durante un controllo della polizia. E il pestaggio dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere da parte della polizia penitenziaria. Ora, il devastante caso di Verona. Il protagonista si chiama Alessandro Migliore, il picchiatore, un bandito in divisa che favoriva i criminali e annichiliva i poveri cristi con spray, schiaffi e angherie varie. Con lui c’erano quattro sodali, altri 17 a coprire e qualcun altro che non è stato ancora identificato. Era un sodalizio, un clan e un blocco di potere che si era insediato in quel presidio di legalità che dovrebbe essere una questura.

«Quanti ne ho arrestati di colleghi, anche di altre forze dell’ordine. Non ho mai coperto nessuno, non ho mai tollerato esagerazioni anche quando siamo stati sfidati. Ricordo la sera in cui un mafioso spaccò la faccia a uno dei nostri: contro di lui non abbiamo alzato nemmeno un dito, e lo stesso atteggiamento lo abbiamo avuto anche con gli altri. Questa storia ci indigna, questi non sono nostri colleghi. Sono gentaglia», dice chi ha passato trent’anni in polizia inseguendo malacarne e criminali.

Non c’è solo rabbia nella sua analisi, ma anche questioni aperte da approfondire. Domani ha parlato con poliziotti, funzionari ed esperti per capire dove può nascere la devianza, dove si può correggere un sistema che è fatto di elevate professionalità, di coraggio e impegno quotidiano. Risposte che non sono comunque sufficienti per capire Verona e quella degenerazione.

Abbiamo però cercato di rispondere a una serie di domande: chi forma i poliziotti? Esiste la diffusione di una cultura anti-violenza e del rispetto delle regole? Gli assunti sono tutti civili? Chi si occupa della loro salute mentale? Qual è il modello gestionale dei commissariati? È possibile riconoscere oggi chi non è adeguato a ricoprire un ruolo così sensibile?

La riserva militare

In polizia si entra per concorso pubblico, e i concorsi sono differenti: c’è quello per agente semplice, quello per ispettore e commissario. Il superamento delle prove rappresenta solo il primo step per il definitivo ingresso nella polizia di Stato. Successivamente, tutti sono obbligati a frequentare un corso, la vera e propria scuola di formazione che cambia, con programmi e durata, in base alla posizione che si andrà a ricoprire.

Nei concorsi e anche nelle scuole di polizia ci sono criticità che sono emerse in questi anni. Il concorso per agente prevede una prova d’esame scritta, una di efficienza fisica e i successivi accertamenti di idoneità psicofisica e attitudinale. Se ad esempio si legge con attenzione l’ultimo bando, emanato lo scorso novembre per 1.188 posti di allievo agente della polizia di stato, si scopre un dettaglio che è presente in ogni concorso: c’è un’aliquota riservata per gli ex militari di leva volontaria.

«Nessuno stigma, ma il problema c’è e riguarda la quota che per legge è riservata a chi proviene dall’esercito», dice un dirigente della polizia di Stato. In pratica, nel 2000 (governo D’Alema), con il completamento dell’iter della legge delega, si sospese la leva obbligatoria per passare a quella volontaria. Da allora è stata attribuita una percentuale importante delle assunzioni nelle forze dell’ordine a chi proviene dall’esperienza militare volontaria. E qual è il problema?

Ce lo spiega uno dei massimi esperti di sociologia della sicurezza, Maurizio Fiasco. Per quasi tre decenni è stato professore nelle scuole di formazione e aggiornamento della polizia. Tra i frequentatori del suo corso dirigenziale ha avuto anche il futuro capo della polizia Franco Gabrielli: «È vero, nell’anno 2001, era il migliore in assoluto di quel corso», ricorda Fiasco, che però – dall’avvento di Matteo Salvini al ministero dell’Interno – non ha più svolto docenze.

«Si è passati da una leva obbligatoria, che costruiva un contatto e un rapporto diretto tra l’esercito e la società, a una ferma volontaria che alimenta invece estraneità e settarismo. Con un ulteriore grave limite: la leva volontaria non consente un effettivo accesso alla carriera.

È un impiego a termine, che si offre a quanti incontrano maggiori difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. Così, l’assunzione facilitata in tutte le organizzazioni delle forze di polizia, sia statali sia locali, si presenta come uno sbocco privilegiato. Un salto all’indietro rispetto alla riforma del 1981 che ha smilitarizzato l’ex corpo delle guardie di pubblica sicurezza», dice Fiasco.

Il problema è che sono due mondi molto diversi tra loro. «L’esperienza militare è maturata sui teatri di guerra, in lunghi giorni vissuti guardandosi dalla minaccia dall’esterno, su una coesione di gruppo separato che avverte un “noi soldati” contrapposto agli “altri”, tra i quali si annidano i nemici. Ne deriva peraltro una sofferenza, che ingenera una visione (anche se non mancano esempi di sostegno sociale alle popolazioni) da guarnigione in caserma: è distante anni luce dall’identità civile di servizio al cittadino, che è invece il cardine del servizio nella polizia di Stato», sottolinea Fiasco.

Il voto Migliore

Ci sono persino concorsi riservati unicamente a militari in servizio e congedati, ed è uno di questi quello a cui ha partecipato Alessandro Migliore. Era un bando di concorso, pubblicato nel 2018 e che si è svolto nel 2019, alla ricerca di 654 allievi agenti della polizia di Stato.

All’epoca Migliore aveva 21 anni e rientrava nei requisiti previsti. A quel concorso potevano partecipare «i volontari in ferma prefissata di un anno e in servizio almeno da sei mesi continuativi». Migliore, finita l’esperienza militare, si è buttato in polizia e ha partecipato al concorso. Domani ha visionato il punteggio della prova scritta – 9,585 – che è stato il lasciapassare verso la divisa.

Ma la provenienza militare non basta in alcun modo per spiegare il caso Verona: altri indagati provenivano da concorsi riservati ai civili e non avevano trascorsi nell’esercito. Come Filippo Failla Rifici che, dopo aver vinto il concorso, ha sostenuto 18 mesi di corso di formazione nella scuola ispettori di Nettuno. Prima, ha dovuto affrontare sia una prova scritta sia una orale, superando entrambe brillantemente con questi voti: sette e 7,30.

Rifici, che ha anche due lauree alle spalle, e Migliore sono ora indagati per tortura. Per loro è stato disposta la misura degli arresti domiciliari, dopo che sono stati protagonisti di abusi di potere, tra schiaffi e urina, modello Arancia meccanica.

I corsi ridotti

Va ribadito che migliaia di ex militari svolgono con professionalità il loro mestiere, nonostante l’approccio cambi completamente da esercito a polizia. Proprio la formazione dovrebbe rivestire un ruolo decisivo, in ragione di questo circuito differente di origine. Ma negli ultimi anni è stata sempre più ridotta in termini di intensità e durata per la solita ragione che guida tutte le scelte: l’organico insufficiente al quale si aggiunge un’età media sempre più alta, intorno ai 47 anni.

«I concorsi dedicati, quelli con le aliquote, spalancano le porte a chi arriva da un’esperienza nell’esercito e, in considerazione dell’approccio differente, avremmo dovuto in questi anni aumentare la formazione. Invece, è stata ridotta considerevolmente. Lo si è fatto per dare maggiore impulso agli ingressi, visto il perenne problema di organico, ma non è la strada giusta», dice Fiasco.

Uno degli ultimi corsi di formazione per allievi, anche a causa della pandemia, ha avuto la durata di 8 mesi, quattro mesi in meno di quelli che abitualmente, negli anni passati, venivano svolti dai futuri poliziotti. Le scuole per agenti sono sette, sparse su tutto il territorio nazionale. «L’allievo agente dovrà, al più presto, avere coscienza che l’appartenente alla polizia di Stato deve mantenere un costante autocontrollo, una dirittura morale e uno spiccato senso del dovere, che non dovranno vacillare in nessuna situazione», recita un vademecum per l’allievo del ministero dell’Interno.

La prima parte del corso è teorica, la seconda pratica con l’agente che svolge un periodo di prova, prima della definitiva assegnazione. I futuri poliziotti studiano materie giuridiche, di polizia giudiziaria amministrativa; le regole tecniche ed esperienziali che caratterizzano il bagaglio dell’operatore; con approfondimenti legati al completamento della formazione.

Un alto dirigente ci mostra la sua scrivania coperta da manuali, appunti, libri utilizzati in decine di corsi svolti e incontri con i futuri agenti. Su un manoscritto si legge «qualità personali dell’investigatore» e più sotto: «Mai innamorarsi di una sola tesi». Rivendica l’importanza di quest’attività di formazione e il livello di attenzione a ogni aspetto, riconoscendo che la riduzione di tempo rappresenta un evidente passo indietro.

La vita in reparto

Il viaggio di un poliziotto, dopo aver superato il concorso, aver frequentato la scuola e la fase di agente in prova, trova finalmente il suo capolinea nel commissariato dove viene trasferito. Il periodo di aggiornamento continua, ma anche quello di valutazione.

«È anomala l’assenza di responsabilità, almeno per il momento, di superiori nella vicenda Verona, visto che noi siamo sottoposti ogni anno a un giudizio», racconta un poliziotto a Domani.

Ogni dodici mesi, infatti, i superiori devono redigere un rapporto informativo per l’anno trascorso, nel quale devono fare una valutazione dettagliata dell’agente. Una sezione è riservata alla competenza professionale, un’altra alla capacità di risoluzione, la terza a quella organizzativa e, da ultimo, viene valutata la qualità dell’attività svolta. «Bastava spostarli prima, i dirigenti hanno una chiara colpa, non hanno vigilato», continua l’agente.

Ed è qui che nasce un ulteriore quesito: cosa succede quando un superiore scopre un agente esagitato? «Le soluzioni sono due e sono legate anche alla personalità del dirigente: denunciarlo, così da avviare un’indagine giudiziaria, oppure trasferire il poliziotto in un altro reparto. Quando ho agito spostando da una sezione all’altra l’agente non sono mancate rimostranze delle sigle sindacali, un altro interlocutore da gestire in queste vicende. In altre occasioni ho denunciato e seguito personalmente il caso, fino all’arresto e alla destituzione», dice un questore di lungo corso.

Sugli equilibri interni e sul peso delle sigle sindacali le opinioni sono diverse. Un poliziotto la pensa diversamente: «Ma quale peso, siamo diventati più militari rispetto agli anni Ottanta e Novanta. Oggi i dirigenti hanno tutte le possibilità di trasferire e spostare, il peso sindacale si è totalmente ridotto», dice l’agente.

Il reparto volanti, quello che vede coinvolti i poliziotti di Verona, se non è inserito pienamente nella macchina organizzativa rischia di diventare un mondo a parte di sceriffi di strada.

Oltre i quattro, conquistati dall’ex militare guida Migliore, ci sono altri 17 che rischiano l’interdizione. Sono tutti con poca esperienza e sono accusati di aver coperto violenze e abusi. «Bisogna ripensare i modelli organizzativi, la carriera deve essere incentivata quando rendi un servizio efficace ai cittadini, non solo quando catturi i ladri. Bisogna ripensare i criteri in base ai quali disporre gli avanzamenti di carriera. Chi struttura un commissariato efficiente, stabilisce legami di fiducia con il territorio, fa aumentare le denunce, attiva un moderno sistema di prevenzione, paradossalmente è penalizzato nella carriera. E dunque è questo il modello di valutazione da cambiare», conclude Fiasco.

La paura dello psicologo

C’è un altro aspetto, trascurato e ignorato dal dibattito pubblico: chi aiuta il poliziotto? E cosa succede se chiede aiuto? Quando scopre un cadavere massacrato di coltellate chi lo assiste?

«Dovremmo essere sottoposti a visite psicologiche costanti e periodiche, bisogna uscire dalla logica dei Robocop ed entrare nella modernità», dice Roberto Massimo, segretario nazionale dell’Usip, Uil polizia.

«Oggi se un poliziotto chiede il supporto psicologico deve informare il superiore. Quando si entra in un percorso di terapia, nella maggior parte dei casi, ti vengono sottratti la pistola e il tesserino, in attesa dell’esito dei consulti. Noi chiediamo psicologi esterni, che non siano dell’amministrazione, e una vigilanza sanitaria frequente. Perché non ne possiamo più di lavorare in queste condizioni con suicidi in costante aumento».

Tutto questo non cancella Verona e nemmeno lo spiega. Ma aiuta ad avere qualche strumento in più per evitare che casi simili si ripetano in futuro.

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