I boschi hanno tempi di rinnovo secolari, nulla a che vedere con con quelli dell’uomo. Alcune popolazioni muoiono, altre vengono gradualmente sostituite da nuove specie, altre ancora prendono il sopravvento in un continuo mutare che tenta di adattarsi alle nuove condizioni climatiche, alle infestazioni, alla mano dell’uomo.
Ma la tempesta che nel 2018 ha colpito le Alpi di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia ha dapprima ridisegnato interi versanti, e successivamente, aperto la strada a quella che oggi è considerata una vera e propria epidemia, difficile da gestire.

Basta passeggiare anche una sola giornata attraverso queste valle e questi pendii, per rendersi conto di quanti abeti rossi (Picea abies) stiano morendo rapidamente: chiazze bruno rossastre in un mare verde intenso che si allargano proprio come le macchie di petrolio grezzo fuoriuscite da qualche petroliera incagliata.
La sensazione è che si stia vivendo un disastro ecologico che, se non cambierà per sempre la faccia delle foreste dolomitiche e in particolare delle peccete, lo farà certamente per le generazioni che qui vivono, del bosco e con il bosco.

Dopo Vaia, il bostrico

«Sono 46 anni che faccio il boscaiolo, e ho sempre lavorato in altopiano», racconta Giorgio Sambugaro, boscaiolo dell’altopiano di Asiago. «È veramente deprimente vedere come tutto sia cambiato, non riesco a riconoscere più i luoghi in cui sono cresciuto e in cui lavoro da sempre. Prima Vaia e ora il bostrico sta portando via gli alberi sopravvissuti».
Già il bostrico, meglio conosciuto dagli addetti ai lavori come Ips tipographus, un piccolissimo coleottero cosiddetto xilofago (che si nutre di legno), endemico delle foreste boreali europee, con la tempesta ha trovato migliaia e migliaia di piante dove crescere e prosperare, finendo per infestare quelle rimaste. Già indebolite dalla tempesta e successivamente dalla prolungata siccità degli ultimi anni e dalle temperature eccessivamente elevate, le piante si sono ritrovate senza difese.
«Caldo e siccità sono state le condizioni ottimali perché gli abeti si trovavano già sotto stress», spiega Marco Pellegrini, dottore agronomo e forestale che lavora sull’altopiano.
«Da Vaia in poi si è lavorato sempre solo in emergenza e con interventi fitosanitari». L’unico metodo per rallentare questa invasione sembra essere solamente una: abbattere le piante infestate o già morte.

Il bostrico tipografo, chiamato così perché scava delle vere e proprie gallerie sotto la corteccia della piante, deposita le uova da cui nascono poi le larve, che a loro volta scavano altre gallerie perpendicolari all’asse del fusto, che interrompono il flusso di linfa. Di fatto uccidendo la pianta. «Si è moltiplicato a dismisura sfruttando come base alimentare tutti gli alberi caduti con Vaia», racconta Daniele Zovi, ex forestale e profondo conoscitore delle foreste dell’altopiano. «Il danno quindi si fa sentire anche dopo anni dalla tempesta perché stanno morendo centinaia di alberi colpiti da questo insetto».
La speranza risiede nel fatto che prima o poi si possa raggiungere una sorta di equilibrio. «Prevediamo ci possa essere una riduzione di questo attacco, quando si manifesteranno i primi parassiti di questo insetto. Quel che è certo è che perderemo migliaia di abeti».

Alcune stime nei territori colpiti da Vaia e dal bostrico hanno quantificato una perdita del patrimonio boschivo anche del 60 per cento rispetto alla situazione pre 2018. Solo in Veneto i danni stimati da bostrico forniscono un bilancio impietoso: 10mila ettari colpiti, 2,5 milioni di piante morte, 3,8 milioni di metri cubi di materiale da asportare, 200 milioni di euro di danni per il deprezzamento del legname oltre ad altrettanti di danni indiretti.

Da disastro a laboratorio a cielo aperto

Certo le responsabilità dell’uomo non mancano. Soprattutto qui sull’altopiano di Asiago, uno dei fronti maggiormente colpiti durante la prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto le foreste erano state praticamente spazzate via: da quel momento in poi si mise a dimora una sola specie, una monocoltura di abete rosso che a distanza di un secolo ha dimostrato tutti i suoi limiti. «Se ci guardiamo intorno, vediamo come il faggio o il larice abbiano resistito, sia alla tempesta che all’infestazione», spiega Zovi. «Se avessimo avuto boschi biodiversi, tutto questo non sarebbe accaduto». Ed eccola la lezione di Vaia: i boschi ricchi di biodiversità resistono di più alle perturbazioni e alle infestazioni.

Ed è a partire proprio da questa idea che, già nel 2020, il comune di Asiago, assieme al dipartimento Tesaf dell’università di Padova, Treedom e Fsc Italia, ha avviato un progetto sperimentale che mirava alla ricostituzione del patrimonio forestale distrutto, garantendo allo stesso tempo una maggiore resilienza del territorio contro eventi catastrofici estremi.

“Oltre Vaia”, così il nome del progetto, ha visto la scelta di un’area di tre ettari sulla sommità del monte Mosciagh, fortemente colpita nel 2018, che è stata in parte lasciata ad evoluzione naturale ed in parte destinata alla messa a dimora di circa 6mila nuove piantine tra cui abete bianco, larice, sorbo, betulla, faggio, acero e altre specie autoctone, diventando un vero e proprio laboratorio a cielo aperto.

«Questo rimboschimento serve per accelerare le dinamiche naturali, non mira a stravolgerle. Sviluppare questo tipo di attività in un’area certificata è di fondamentale importanza perché è un esempio di come sia possibile ricreare, mantenere e in alcuni casi anche aumentare la biodiversità dei popolamenti forestali», spiegava in una nota Emanuele Lingua, professore associato di selvicoltura presso il dipartimento Tesaf e responsabile tecnico-scientifico del progetto.

La collaborazione tra l’amministrazione pubblica, il mondo della ricerca e un ente che certifichi la gestione responsabile delle aree boschive secondo alti standard ambientali, sociali ed economici, è stata così fondamentale per pianificare il governo del territorio e dei quasi 6mila ettari di area forestale.

A tre anni dall’impianto le piccole piante hanno attecchito e si stanno facendo spazio nel sottobosco, creando delle piccole comunità, o meglio biocenosi, che tra venti trent’anni daranno vita alle nuove foreste, più forti e ricche di biodiversità. Alle loro spalle svettano i pochi abeti rossi sopravvissuti, a monito delle future generazioni. 

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