Puntualmente, ogni tanto qualcuno annuncia: «La pandemia di Covid-19 è finita!». È successo a giugno 2020 al termine della prima ondata, è successo a gennaio 2021 al termine della seconda, e poi nell’estate del 2021 al termine della terza, e dopo la quarta e la quinta.

Anche pochi giorni fa c’è chi ha sentenziato: «La pandemia è finita!», e prima o poi accadrà, ne possiamo stare certi, e ci sarà qualcuno che prima o poi azzeccherà la previsione, come un orologio fermo che due volte al giorno segna l’ora giusta.

Di recente, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Ghebreyesus, ha pronunciato la versione più attendibile di questa profezia. Ha detto: «Su questa pandemia ripeto la solita solfa: nessuno è al sicuro fino a quando tutti non saranno al sicuro. La pandemia non è ancora finita, ma cominciamo a vedere la luce». Ecco: la pandemia finirà quando tutti sulla faccia della Terra saremo al sicuro dal Covid, cosa che non è ancora avvenuta visto quello che sta succedendo in Cina, però cominciamo a vedere la fine del tunnel. Ma allora la pandemia è finita? No.

Definizioni

Per quanto possa sembrare strano, non c’è una definizione di pandemia sulla quale tutti siano concordi, e se non si sa cosa sia una pandemia allora è difficile dire quando inizia o finisce.

La parola pandemia deriva dal greco, ed è composta dal termine «pan» che significa tutti, e «demos» che significa gente: quindi la pandemia è un’epidemia che colpisce tutta la gente. Ma tutti chi? Per esempio, alcuni definiscono la pandemia «un’epidemia che si diffonde su una vasta area geografica composta da più nazioni o continenti e colpisce una proporzione significativa della popolazione». Altri «un’epidemia improvvisa che si diffonde su larga scala e interessa un’intera regione, un continente o il mondo intero».

Queste definizioni non chiariscono un punto: che cosa significa esattamente «più nazioni» o «un’intera regione»? Quale percentuale della popolazione deve colpire un contagio affinché possa essere considerata una pandemia?

Date queste incertezze, non sorprende che non ci sia un solo scienziato, una sola agenzia governativa o organizzazione di sanità pubblica che abbia il potere di dichiarare quando una pandemia comincia o finisce.

Qualcuno, come Marion Dorsey, storica esperta di pandemie, ha addirittura suggerito che una pandemia termina quando tutti si comportano come se fosse terminata davvero: «Quando tutti cominciano a entrare nei negozi senza mascherina o anche solo ad entrare nei negozi per puro divertimento, ciò indica che tutti pensano che la pandemia stia svanendo o che addirittura sia terminata».

E John Barry, lo storico autore del testo definitivo sulla pandemia di influenza spagnola del 1918, intitolato La grande influenza: il racconto della più letale pandemia della storia, ha scritto che «una pandemia finisce quando la gente smette di pensarci», cioè quando cessano le precauzioni, le restrizioni, o le modificazioni nel comportamento che prima della pandemia non esistevano.

La strada è ancora lunga

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Può sembrare una tautolologia paradossale ma una pandemia finisce quando noi pensiamo che sia finita. Sono gli uomini a decidere quando una pandemia finisce, non gli scienziati. Ma qualcuno potrebbe obiettare che ci possono essere certuni che si stancano delle restrizioni o altri che sono scettici e non credono né nella malattia né nell’efficacia delle restrizioni e che ignorano a tal punto le raccomandazioni da comportarsi esattamente come se la pandemia fosse finita, anche se magari i casi e i decessi continuano ad essere numerosi. Che è esattamente quello che sta accadendo col Covid proprio ora.

In Cina – un paese che conta 1,4 miliardi di abitanti, un quinto della popolazione del pianeta, e che è grande come un continente – ci sono probabilmente centinaia di milioni di persone malate di Covid e i morti sono decine di migliaia. In Italia, nella settimana dal 30 dicembre al 5 gennaio i nuovi casi di Covid sono stati 135.977, in aumento rispetto ai 122.099 della settimana prima (+11,4 per cento), e i decessi sono stati 775, in aumento rispetto ai 706 della settimana prima (+9,8 per cento), con una media di 111 al giorno, che sono un’enormità. Eppure noi ci comportiamo come se la pandemia fosse finita.

Sono ormai passati tre anni da quell’11 marzo 2020, giorno in cui l’Oms ha dichiarato ufficialmente che il Covid-19 era una pandemia, ma adesso pare davvero che siamo arrivati ad un punto di svolta. Però, qualcuno invita alla cautela.

Nell’ultimo numero dell’annata, quella dello scorso 23 dicembre 2022, la rivista scientifica Nature, in assoluto la più prestigiosa al mondo del suo genere, ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Non c’è spazio per l’autocompiacimento con il Covid nel 2023».

Inizia con questo monito: «Le crude scene che arrivano dalla Cina ci mostrano che la pandemia è ben lungi dall’essere terminata. L’unica soluzione è focalizzarci in maniera mirata nel rafforzamento dei sistemi sanitari pubblici». 

E continua così: «In molti posti, nel 2022 la vita sembra essere ritornata alla normalità pre-Covid. I governi hanno sospeso i lockdown, hanno riaperto le scuole e allentato o cancellato l’obbligo di indossare le mascherine. I viaggi internazionali sono ripresi. Ci sono stati anche proclami ottimistici. A gennaio, il primo ministro danese Mette Frederiksen ha dichiarato che il SARS-CoV-2 non rappresentava più una minaccia per la società. In settembre, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha dichiarato durante un’intervista che la pandemia era terminata. Persino Tedros Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, ha espresso la speranza che la designazione ufficiale del Covid-19 come emergenza globale possa avere termine nel 2023. Queste affermazioni sono smentite dalle devastazioni che questa malattia continua a causare nel mondo. L’esempio più crudo viene dalla Cina, che è stato uno degli ultimi paesi ad allentare le misure di controllo anti-pandemia, anche se si trovava di fronte alla rapida diffusione della variante Omicron».

Cosa fare

L’editoriale di Nature esorta a non abbassare la guardia e indica cosa fare. «Bisogna rinnovare le risposte. Negli altri paesi al di fuori della Cina, le ripetute ondate di infezioni e di decessi sono state sostituite da un costante e funereo succedersi di morte e di debilitazione provocato dal Long Covid».

In sostanza, prima il Covid si presentava sotto forma di ondate di casi e di decessi e noi lo notavamo di più, invece ora si presenta sotto forma di un costante stillicidio di morte e di malattia, che passa perlopiù inosservato.

L’editoriale di Nature avverte: «In molte nazioni i tassi di vaccinazione contro il Covid-19 sono andati in stallo. In altre la somministrazione dei richiami è stata penosa, anche se riducono sostanzialmente le morti e le malattie gravi».

La prima cosa da fare è rinnovare i nostri sforzi per esortare la popolazione a farsi somministrare la quarta dose di vaccino e anche tutte le future dosi che saranno eventualmente necessarie. E poi bisogna sperare nella tecnologia.

In questo momento molti scienziati del mondo stanno cercando di sviluppare vaccini cosiddetti mucosali. Questi vaccini verranno somministrati per inalazione attraverso le mucose del naso e della bocca, e si spera che possano indurre un’immunità sterilizzante in grado di bloccare la trasmissione del virus e non solo la malattia grave.

La cosa che ci dovrebbe convincere a non bearci troppo dei nostri successi contro il coronavirus è che c’è sempre il rischio che possano emergere una o più «variant of concern» (Voc), cioè «varianti di cui preoccuparsi», come le definisce l’Oms.

Di sicuro durante il corso dell’anno 2023 compariranno nuove varianti del virus, come è accaduto durante il 2022, che ha visto la diffusione su scala planetaria della variante Omicron, contagiosissima ma meno letale della variante Delta precedente.

Le nuove varianti potrebbero sfuggire ancora meglio alle difese del nostro sistema immunitario, o causare una malattia più grave, o essere più contagiose di quelle attualmente in circolo. L’arrivo possibile di una nuova Voc dovrebbe convincere anche le persone vaccinate- specie gli anziani o gli immunocompromessi- a farsi somministrare le dosi booster.

Il possibile arrivo di una nuova variante dovrebbe spingerci anche a raddoppiare gli sforzi per le vaccinazioni nei paesi a basso reddito. Purtroppo, nei paesi a basso reddito dell’Africa e dell’Asia solo un quarto della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino.

Le nazioni ad alto reddito del mondo dovrebbero sempre ricordare che è necessario rifornire di vaccini i paesi meno sviluppati, o sviluppare in loco gli stabilimenti in grado di produrre i vaccini per quelle popolazioni sfortunate.

Per due motivi fondamentali: per ragioni umanitarie, perché ogni uomo che muore di Covid senza vaccino è una perdita per l’umanità intera; e perché là dove il virus circola più liberamente è più probabile che nascano nuove varianti che possono colpire la popolazione del pianeta.

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