«Siamo a rischio collasso»: il mondo delle Rsa (residenze sanitarie assistenziali) lombarde, trasformate in trappole mortali nella prima ondata pandemica, è in allarme. Gli enti gestori delle residenze socio-assistenziali, un comparto che in questa regione assiste un quarto della popolazione nazionale anziana e in situazione di estrema fragilità, sono in piena crisi.

Parliamo di strutture che assistono 70 mila persone nella sola Lombardia, a cui vanno aggiunte altre migliaia di pazienti in assistenza domiciliare: un’intera comunità, che rischia di vedersi tagliare i servizi o aumentare di molto le rette, nel bel mezzo di una seconda ondata pandemica, se non si interviene con misure urgenti e finanziamenti tempestivi.

Con la chiusura delle case di riposo, da inizio marzo a fine giugno, a causa del Covid-19, si sono persi nel primo semestre dell’anno un milione di giornate di lavoro, vale a dire 100 milioni di euro, che nel secondo semestre potrebbero raddoppiare, a causa anche del contingentamento dei nuovi ingressi. Duecento milioni in meno, che pesano. Oltre alla sofferenza finanziaria dovuta ai minori ricavi, bisogna aggiungere l’aumento dei costi, frutto anche dello sciacallaggio del libero mercato e di impresari, che ha fatto gonfiare il prezzo di tutti i dispositivi necessari per far fronte alle nuove misure di prevenzione e di contenimento del virus.

Un binomio esplosivo, che potrebbe avere ricadute drammatiche in termini di sanità pubblica. L’85 per cento  dei gestori di Rsa in Lombardia sono enti non profit, che vogliono mantenere bassi i costi per i degenti, ma che senza un sostegno economico rischiano oggi di finire gambe all’aria, con pesanti ricadute occupazionali. Lasciando libero il campo a privati veri, multinazionali, che si sa, non fanno certo beneficienza.

Luca Degani, presidente di Uneba Lombardia, che in regione riunisce 400 Rsa, chiede «uno screening della popolazione anziana, la più fragile, quella con il più alto rischio di letalità per Covid-19. Non avere una politica di sorveglianza epidemiologica gestita dal pubblico su quella fascia di popolazione è un rischio per tutti. Ora l’attenzione è focalizzata sulla popolazione scolastica, quella con maggiori contatti sociali, ma non con il maggior rischio vita. E’ la popolazione anziana, quella che si trova nelle nostre Rsa, a rischiare di morire e di alimentare nuovi focolai. Ecco perché non può essere lasciato al privato, alla discrezionalità del singolo gestore, la scelta di fare uno screening sui degenti e sugli operatori sanitari. Queste sono scelte di sanità pubblica».

Le procedure

Oggi chi entra in una Rsa viene sottoposto a tampone, su iniziativa della struttura che ospita l’anziano. Per due settimane il nuovo paziente viene isolato, per poi essere sottoposto a un secondo tampone: se entrambi i test sono negativi viene ricoverato. Tuttavia, uno screening programmato e periodico sull’intera popolazione delle Rsa, compresi gli addetti ai lavori, oggi non c’è. Chi può li fa. Altrimenti pace, è tutto lasciato alla provvidenza. “Solo un protocollo di sorveglianza gestito dal pubblico sulla popolazione più fragile potrebbe rilevare anche quei casi asintomatici, che proprio in strutture come le nostre - e senza un adeguato isolamento e tracciamento - potrebbero scatenare pericolosi focolai”, aggiunge Degani.

Quello che è accaduto a marzo non sembra avere insegnato nulla: le case di riposo al nord sono state epicentro dei focolai. Soltanto al Pio Albergo Trivulzio - la storica casa di riposo milanese oggi sotto inchiesta per omicidio ed epidemia colposa - sono morte di Covid centinaia di persone e quasi 300 operatori sanitari si sono contagiati. Nadia Mordini, infermiera del Pio Albergo Trivulzio di Milano, delegata sindacale Cisl, 63 anni e con 40 anni di carriera alle spalle, si ricorda tutto. Fu lei, insieme ad altri colleghi, una delle prime a denunciare quello che accadde dentro a questa grande struttura milanese. «I primi 17 pazienti presi dall’ospedale di Bergamo erano tutti positivi ed è scoppiato il boom, era un accordo con Regione Lombardia. Era la fine di febbraio. Ci hanno messo pochissimo a contaminare tutti. Nei reparti avevamo medici che ci dicevano di non usare le mascherine per non spaventare i pazienti. Quei 17 malati Covid in convalescenza li hanno portati qui, perché l’ospedale li doveva dimettere. E non lo hanno fatto gratis».

Oggi molti reparti sono stati chiusi e dentro al Trivulzio c’è tensione. «Siamo arrabbiati perché erano stati stanziati dei soldi per il premio Covid -  dice Mordini - ma a noi non è arrivato un soldo, erano mille euro a testa per ogni dipendente. In piena pandemia abbiamo rischiato la vita, con turni bestiali, non c’era personale, gli operatori si ammalavano, ma secondo il presidente della Lombardia Fontana e l’assessore Gallera non abbiamo avuto rischio covid. Come Rsa secondo loro non ci spetta, ma noi non siamo solo Rsa, siamo anche un centro riabilitativo e quindi il premio ci spetta, eccome!”.

Ora, tra avvisi di garanzia e inchieste della magistratura, all’orizzonte c’è anche un altro dramma in vista, quello di ritrovarsi con migliaia di nuovi disoccupati: operatori di Rsa con contratti a termine a cui non verrà rinnovato il contratto. Operatori sanitari che non potranno più occuparsi dei loro pazienti. Una generazione di anziani abbandonati e terrorizzati da questo autunno già drammatico.

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