Il mondo del vino ha un grosso problema: il vetro. Da una parte ci sono le fabbriche, stabilimenti che sono stati investiti in pieno dall’aumento dei costi energetici di questi mesi. Dall’altra le cantine vinicole, aziende agricole che faticano ad approvvigionarsi di bottiglie e che contemporaneamente hanno visto i loro fornitori aumentare di molto, in poche settimane e all’improvviso, i prezzi dei loro listini. In Italia ci sono 39 stabilimenti produttivi, vetrerie, di proprietà di 16 aziende. Sono industrie cosiddette energivore, che per produrre hanno bisogno di grandi quantità di gas metano per permettere il funzionamento dei loro forni a ciclo continuo. Impianti che non hanno un interruttore, che non è possibile spegnere e riaccendere a piacimento a meno di comprometterne il ciclo di vita, mediamente di dieci anni. Tutti insieme consumano circa 1,1 miliardi di metri cubi di gas, poco meno dell’1,5 per cento del consumo nazionale. L’enorme aumento dei prezzi dell’energia e in particolare del gas di questi mesi ha impattato in modo significativo su tutta l’industria del vetro italiana.

Racconta Marco Ravasi, presidente di Assovetro e amministratore delegato di Verallia, uno dei maggiori produttori italiani: «Prima di questo ormai lungo periodo di crisi l’energia impattava per circa il 25 per cento sul costo produttivo di una bottiglia».

Oggi le cose sono molto cambiate. Se guardiamo alle sole aziende produttrici di vetro ci troviamo di fronte a due scenari. Da una parte ci sono quelle che hanno fatto hedging, hanno cioè firmato dei contratti con i loro fornitori di gas per proteggersi da imprevedibili variazioni dei prezzi.

Dall’altra quelle che per le ragioni più diverse hanno deciso di non farlo e che quindi hanno visto un repentino aumento dei loro costi di produzione. «Per queste ultime l’incidenza dei costi energetici sulla singola bottiglia è raddoppiata e anche più in brevissimo tempo», dice.

Tutto troppo caro

Illustrazione AP

Il contesto rimane infatti drammatico. Il 17 settembre il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha firmato un decreto importante, il cosiddetto Energy Release, che prevede la cessione attraverso aste di parte dell’energia prodotta a un prezzo controllato. Un meccanismo che può aiutare le aziende energivore a ridurre i costi. Il problema, racconta Marco Ravasi, è che questa situazione così particolare si è andata a sommare alla crisi della supply chain.

L’Italia importa circa il 20 per cento del vetro che utilizza, soprattutto da Turchia, Portogallo, Europa del nordest, e negli ultimi mesi abbiamo assistito da una parte a una ripresa molto repentina dell’economia e dall’altra alla mancanza di mezzi di trasporto.

«Il costo dei noli è schizzato alle stelle, cosa che ha fatto crollare le importazioni. Tutti questi elementi, combinati, hanno portato a un aumento abbastanza improvviso e generalizzato dei prezzi delle bottiglie di vetro che è possibile stimare intorno al 25 per cento», dice Ravasi.

Il tema dell’aumento dei costi di produzione, e quindi dei prezzi delle bottiglie, ha investito in pieno il mondo del vino italiano. «Abbiamo grandi difficoltà sia perché sul mercato c’è carenza di bottiglie sia perché i continui aumenti dei listini prezzi non ci permettono di fare quel lavoro di programmazione economica tipico di ogni azienda», dice Andrea Di Fabio, direttore generale di Cantina Tollo, cooperativa che conta 700 soci, 16 milioni di bottiglie prodotte all’anno a partire da 2.700 ettari vitati complessivi.

«Ci sono casi di vetrerie che ritoccano i prezzi su base settimanale, o quasi, con aumenti che rispetto all’anno scorso sono arrivati al 70-80 per cento per le bottiglie di minor valore. In linea generale non c’è bottiglia il cui prezzo non sia aumentato dall’inizio dell’anno del 20-30 per cento, come minimo».

Una serie di rincari che non sono ancora arrivati al consumatore, poche le cantine che al momento hanno rivisto i propri listini, anche se le cose inizieranno a cambiare con l’uscita dei vini della vendemmia in corso, nei primi mesi del 2023.

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Meglio fatte in casa

In Italia si producono tante, tantissime bottiglie. Visto il costo, piuttosto contenuto, e l’ingombro, abbastanza rilevante, si tratta di uno di quei prodotti manifatturieri che vengono poco importati, e viceversa.

Ogni grande paese fabbrica infatti una percentuale molto rilevante dei contenitori in vetro necessari alla sua industria alimentare, soprattutto quelli più leggeri e ingombranti.

Secondo un dirigente di un’importante vetreria, trasportare un bancale di bottiglie da vino da una parte all’altra del mondo andrebbe a incidere molto sul prezzo del singolo pezzo, specie per i modelli meno pesanti. Si tratterebbe di un pallet tanto grande quanto pieno di quasi solo aria.

Il discorso cambia se si prosegue nella filiera e si sposta l’attenzione su alcuni dei prodotti italiani più riconoscibili, finiti, all’epilogo del loro ciclo produttivo, prodotti che influiscono in maniera determinante sull’export tricolore come vino, olio extravergine di oliva, pelati e passate di pomodoro.

Tutti alimenti che viaggiano verso altri paesi e che hanno in larga parte un comune denominatore: il vetro. Non è un caso che l’Italia sia il maggiore produttore europeo di vetri cavi, come vengono definiti in gergo tecnico quelli fabbricati per contenere al loro interno un determinato prodotto.

Circa quattro milioni di tonnellate all’anno di vasi per conserve e soprattutto di bottiglie che si ottengono dalla soffiatura di un materiale fuso in stampi.

Una bottiglia di vetro è infatti il risultato della progressiva solidificazione di un liquido viscoso, che si ottiene attraverso la fusione di minerali cristallini.

Una miscela di materie prime mescolate in differenti proporzioni la cui componente principale è la sabbia di quarzo, una polvere che si ricava attraverso la frantumazione di rocce contenenti quarziti.

Un altro importante ingrediente è la soda, necessaria per abbassare il punto di fusione della sabbia, mentre una piccola percentuale di calce rende il vetro duro, lucido e durevole. A questi si affiancano altri elementi cosiddetti fondenti, stabilizzanti, affinanti, decoloranti o coloranti.

Un peso per l’ambiente

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La miscela vetrificabile, che spesso comprende anche una quota molto significativa di rottame di vetro (risultato del processo di riciclo), viene così immessa in grandi forni all’interno dei quali raggiunge una temperatura di circa 1.600 gradi: è qui che si forma quel magma incandescente pronto ad acquisire la forma finale.

Il vetro fuso scorre in quella che potrebbe essere definita come una colata continua, dalla quale vengono tagliate delle gocce. Queste vengono convogliate in apposite forme, stampi nei quali l’aria compressa conferisce alle bottiglie la loro forma definitiva prima del raffreddamento.

Un procedimento reso possibile dalle alte temperature dei forni, al centro di un dibattito che si trascina da anni a causa del grande impatto ambientale di ogni stabilimento produttivo.

Secondo una ricerca dell’Università di Southampton, nel Regno Unito, il vetro sarebbe un contenitore meno sostenibile delle molto più inquinanti bottiglie di plastica. Se infatti quest’ultima è direttamente pericolosa per l’ambiente, l’impatto totale di una bottiglia di vetro sarebbe peggiore se si tiene conto della sua impronta energetica e del danno derivante dall’estrazione delle risorse necessarie per fabbricarla.

In questo contesto i contenitori più rispettosi dell’ambiente sono risultati essere quelli in cartone (il Tetra Pak e i suoi simili) e le lattine in alluminio, entrambi di scarsissima penetrazione nel mercato dei vini di qualità.

Le forme del vino

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Nel vino infatti il vetro rimane centrale, e le bottiglie si dividono in famiglie a partire proprio dalla loro forma, che di volta in volta può essere declinata in modo leggermente diverso in termini di curvature, di colore e di peso in base alle esigenze delle singole cantine.

La famiglia di bottiglie più diffusa prende il nome da una delle più famose regioni produttrici francesi: si chiama bordolese e viene usata in tutto il mondo, per i vini più diversi. Ci sono le borgognotte, le renane, le champagnotte per gli spumanti e moltissime altre, quasi sempre gruppi di bottiglie la cui origine è riconducibile a una specifica area produttiva.

Può infatti succedere che tutti i produttori di una denominazione decidano di usare, per motivi anche di marketing, un solo modello di bottiglia. È per esempio il caso dell’albeisa, quella che prende il nome dalla città di Alba, in Piemonte, per i famosi Barolo e Barbaresco.

Una bottiglia che nasce nel Settecento, quando i produttori della zona vollero per i propri rossi un contenitore unico e distinguibile, capace di nobilitarli al pari delle più note borgognotte e bordolesi. Ripresa a partire dal 1973 da un piccolo gruppo di produttori, è bottiglia che oggi viene usata da oltre 300 cantine per una produzione complessiva di 18 milioni di bottiglie all’anno.

Il mercato del vetro e in particolare di quello destinato all’uso alimentare è molto sano, in crescita costante da anni. Sempre Marco Ravasi racconta che «abbiamo la fortuna di lavorare con una filiera che va molto forte: nel vino le esportazioni continuano a crescere, con case history eccezionali come quello del Prosecco».

Non solo: anche le acque minerali, di cui l’Italia è secondo produttore mondiale, le passate di pomodoro, gli spirit, «solo l’olio un po’ meno ma più per la recente mancanza di materia prima che per assenza di richiesta».

In questo contesto le industrie del vetro stanno continuando a investire. A giugno è stato inaugurato un nuovo impianto cui da qui alla prima metà del 2024 ne seguiranno altri quattro, che complessivamente andranno a coprire il 12 per cento del mercato.

Il riciclo

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In questo contesto la quantità del vetro che viene riciclato è particolarmente rilevante. In Italia viene recuperato ben l’87 per cento del vetro venduto annualmente sul territorio nazionale e quasi il 79 per cento rientra nel ciclo produttivo.

Una delle caratteristiche che rendono il vetro particolarmente virtuoso è il fatto si tratti di materiale cosiddetto “permanente”, le cui proprietà non cambiano durante l’utilizzo o in conseguenza del riciclo ripetuto, anche infinite volte, per realizzare nuovi prodotti.

Ne consegue che da una bottiglia, una volta esaurita la sua funzione e conferita alla raccolta differenziata, si ricava una nuova bottiglia con le stesse proprietà e caratteristiche di quella da cui proviene, e così via.

L’unico problema, al netto del grande dispendio energetico, è relativo al colore: per produrre una bottiglia da vino scura si possono utilizzare rottami misti in quantità anche molto elevate, che possono superare l’80 per cento del peso della materia prima; per una bottiglia trasparente si può utilizzare solo rottame trasparente ma il sistema di raccolta del vetro italiano non prevede la differenziazione per colore e non tutti gli impianti di trattamento sono in grado di effettuarlo.

Secondo uno studio del California Wine Institute la sola bottiglia di vino impatta per circa il 29 per cento della carbon footprint di un’azienda vinicola. Non è un caso che quindi il tema del riuso delle bottiglie usate sia quanto mai attuale, anche se di difficile realizzazione.

Da una parte ci sono realtà legate al consumo dell’acqua minerale, perlopiù locali, che usano uno o al massimo due modelli di bottiglie e che quindi possono contare su una rete di clienti facilmente gestibile, circoscritta, grazie alla quale è più conveniente ritirare i vuoti per destinarli al riuso che acquistare il cento per cento di bottiglie nuove.

Dall’altra c’è la grande frammentazione del mondo del vino. Racconta lo stesso dirigente che parlava di quanto fosse poco conveniente far viaggiare bottiglie vuote attorno al mondo: «Su base nazionale o su grandi numeri il riuso è utopia, non solo le bottiglie sono tutte diverse, ogni cantina vuole la sua, ma i costi di trasporto sarebbero straordinariamente impattanti, anche perché mediamente ai fini del riuso si dovrebbero utilizzare bottiglie un po’ più pesanti, più resistenti.

Per non parlare del fatto che ogni cantina dovrebbe poi dotarsi di una linea dedicata al lavaggio, alla sterilizzazione e all’asciugatura dei vuoti. Sarebbe costosissimo».

Appena più possibilista è Andrea Moser, a capo della produzione della Cantina di Caldaro, in Alto Adige, cooperativa con 440 soci per 590 ettari e quattro milioni di bottiglie annue: «C’è un bellissimo esempio di sistema con il vetro a rendere in Austria, in uno dei loro distretti tutte le cantine usano la stessa bottiglia per la linea classica, per i vini più semplici. Si sono anche organizzati con un centro di raccolta comune al cui interno le bottiglie vengono pulite e preparate al riuso».

Il problema è che il 70 per cento dei vini altoatesini esce dalla regione, non sarebbe sostenibile immaginare di riportare i vuoti in zona. La strada è tortuosa perché la sostenibilità del riuso deve essere non solo ambientale ma anche economica.

«In questo senso un primo passo potrebbe essere quello di mettersi d’accordo e imporsi un limite al peso delle bottiglie. Da qualche anno a questa parte noi abbiamo deciso di usare bottiglie da 500 grammi al massimo, se si pensa che prima ne usavamo anche da 750 si tratta di un risparmio di diverse tonnellate di materia prima all’anno», aggiunge.

Il peso della bottiglia

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Negli ultimi anni si è assistito a una progressiva diminuzione del peso medio delle bottiglie da vino. Se infatti negli anni Novanta per un vino ambizioso, costoso, il consumatore si aspettava una bottiglia altrettanto importante, con il passare del tempo ci si è progressivamente abituati a bottiglie meno pesanti anche per i vini più pregiati. Nell’arco di un ventennio non c’è famiglia di bottiglie il cui peso non sia diminuito, mediamente di più del dieci per cento.

Quelle che hanno visto calare maggiormente, in percentuale, il loro peso sono le champagnotte, le bottiglie per gli spumanti. Basti pensare che la bottiglia standard per lo Champagne pesava mediamente 1,25 chilogrammi all’inizio del secolo scorso mentre oggi si è stabilizzata al di sotto dei 900 grammi.

In questo contesto va tuttavia considerato che ogni mercato fa storia a sé. Ancora Ravasi di Assovetro: «Se negli Stati Uniti e in Canada ci si sta abituando a vetri più leggeri, così non è per la Cina e in generale per il mercato asiatico, dove il peso della bottiglia da vino rimane ancora elemento determinante in termini di marketing».

L’alleggerimento del peso delle bottiglie da vino non richiede solo un minor numero di materie prime ma consente anche una notevole riduzione dei costi di trasporto.

Una bottiglia più leggera permette una saturazione migliore degli spazi e un maggior carico del mezzo trasportatore, riducendo così gli impatti ambientali del trasporto stesso.

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