Non è la prima volta che il cibo finisce nella lista dei patrimoni dell’umanità. Nel 2010, il pasto dei francesi era stato premiato per la sua ritualità e per il valore dei prodotti utilizzati. Mai però nella storia una cucina era stata riconosciuta nella sua interezza
Non un singolo piatto, nemmeno tutti nel loro insieme, ma ciò che c’è dietro. La cucina italiana è stata nominata patrimonio intangibile dell’Unesco per la sua capacità di «favorire l’inclusione sociale, promuovendo il benessere e offrendo un canale per l’apprendimento intergenerazionale permanente, rafforzando i legami, incoraggiando la condivisione e promuovendo il senso di appartenenza».
È un riconoscimento a cui l’Italia lavorava da anni, che conferma il legame del paese con il cibo, riconosciuto anche ai massimi livelli. Sarebbe offensivo affermare che si tratta di una caratteristica tipicamente nostrana, o che gli altri paesi rivolgano meno attenzione verso la propria cucina. Il riconoscimento dell’Unesco segnala però che da noi la cucina è anzitutto tradizione, un bene culturale da conservare e tramandare. E il fatto che venga premiato l’intero sistema è un unicum nella storia.
Gli altri casi
Diversa invece la motivazione con cui nel 2010 l’Unesco aveva giudicato «il pasto francese» come patrimonio immateriale. Era la prima volta che l’organizzazione inseriva la cucina tra i suoi premi , ma lo faceva per celebrare solo una sfaccettatura della gastronomia transalpina. Il pasto viene considerato un momento cerimoniale, un rito che si sussegue, innalzato dalla buona qualità dei prodotti e cadenzato dalle numerose portate. Tre anni fa, anche la baguette è stata riconosciuta patrimonio intangibile per sottolineare il savoir-faire dei fornai. Prima ancora, erano stati il pane azzimo armeno (2014) e turco (2016) a finire nella lista dell’Unesco per la loro preparazione.
Da quindici anni, la gastronomia è entrata nelle nomine dell’Unesco. Sempre nel 2010 la cucina messicana viene considerata tra le più variegate al mondo. «È un modello culturale completo, che comprende agricoltura, pratiche rituali, competenze secolari, tecniche culinarie e costumi e usanze ancestrali della comunità», si legge nelle motivazioni. Una questione di simbolismo dunque, rappresentato da alcune tecniche o ricette identitarie.
Anche quando l’Unesco aveva nominato il kimchi, il piatto di verdure fermentate tipico della Corea del Sud, non era tanto per la preparazione quanto piuttosto per il fatto che unisse le persone. Essendo cucinato in grandi quantità, viene mangiato in famiglia e favorisce la socialità. Pertanto è la preparazione e condivisione (kimjang) a essere premiata, non il piatto in sé.
Vale più o meno lo stesso per il washoku, ovvero la cucina tradizionale giapponese che è stata premiata nel 2013 per la sua sostenibilità ambientale. Il discorso si allarga anche alla cultura Hawker di Singapore, un insieme di street food in cui le ricette asiatiche si mischiano, che l’Unesco ha riconosciuta cinque anni fa come patrimonio universale per la sua diversità.
Così come il cous-cous, piatto tipico africano che accomuna tanti paesi. Per questo Algeria, Marocco, Mauritania e Tunisia avevano presentato una candidatura congiunta, accettata nel 2020 dall’Unesco per «le conoscenze, il know-how e le pratiche relative alla produzione e al consumo».
Nel 2023 è stato il turno delle ceviche peruviane, poi della produzione di attieké di manioca della Costa d’Avorio, dei formaggi artigianali prodotti in Brasile, della zuppa tomyum ung thailandese, fino al tradizionale piatto egiziano koshary premiato quest’anno per il valore accessibile e identitario.
Il record
La differenza con il premio ricevuto la cucina italiana è piuttosto evidente. Il riconoscimento dell’Unesco segna il record per il nostro settore agro-alimentare, il più premiato al mondo. Ben nove su 21 dei patrimoni culturali immateriali sono italiani: la cucina, la dieta mediterranea, l’arte dei pizzaioli napoletani, la costruzione dei muretti a secco, l’allevamento dei cavalli lipizzani, la coltivazione dello Zibibbo di Pantelleria, la cava e la ricerca del tartufo, la transumanza, il sistema di irrigazione tradizionale.
L’annuncio di mercoledì mattina è come se unisse tutte queste tradizioni. La domanda è cosa se ne ricaverà. Potrebbe esserci un ritorno economico, come dimostra l’aumento dei corsi da pizzaioli dopo il riconoscimento. Sicuramente ne gioverà l’immagine dell’Italia, nella speranza che sia un punto di partenza.
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