L’Italia ha finalmente ottenuto ciò che rincorreva da anni: l’ingresso della “cucina italiana” nel pantheon dei patrimoni immateriali dell’umanità. Una vittoria? Forse.

Sicuramente un sollievo, soprattutto per quella parte del paese che da tempo soffriva di una sottile, persistente sindrome d’inferiorità culinaria. Non nei confronti degli Stati Uniti, si capisce, ma verso i due modelli che da sempre popolano il nostro immaginario gastronomico: la Francia e il Giappone.

Le loro cucine, già riconosciute dall’Unesco nel 2010 e nel 2013, continuavano a insinuare un tarlo fastidioso nella mente dei nostri gastronazionalisti: se l’alta cucina “vera” era quella francese e se il Giappone rappresentava l’apice della purezza rituale, noi che cosa avevamo da opporre, oltre al solito repertorio di paste, sughi e litigi su come si fa davvero la carbonara?

Così restavamo affacciati alla finestra, con il cappello in mano, nell’attesa che l’Unesco si decidesse a ricordarsi dell’Italia e delle sue modernissime e sempre più ottuse dispute gastronomiche, più che delle sue tradizioni.

La verità è che avremmo potuto rivendicare la nostra unicità con orgoglio.

La nostra storia alimentare è meno lunga e meno codificata di quella francese, meno ritualizzata di quella giapponese, ma forse per questo più epica: un racconto di miseria, ingegno, improvvisazione, migrazioni e ricostruzioni continue.

Una storia spesso fanfarona, certo, come solo gli italiani sanno essere, ma autentica. Invece abbiamo scelto la strada più facile: imbellettare un’idea rassicurante e turisticamente redditizia di “cucina italiana” e presentarla all’Unesco come se fosse un corpo coerente, un’unica tradizione millenaria, trasmessa con solennità da generazioni di nonne onniscienti.

Una rappresentazione che non ha nulla a che vedere con ciò che abbiamo mangiato per secoli, né con ciò che mangiamo oggi e soprattutto che non ha nulla che vedere con il rapporto col cibo degli italiani di ieri e di oggi.

È, in fondo, una forma aggiornata di autoesotizzazione: ci piace talmente tanto essere guardati attraverso la lente dell’oleografia che finiamo per crederci anche noi. Ed ecco allora la “dieta mediterranea” trasformata in marchio di qualità universale; ecco il mito del chilometro zero, del territorio, dell’autenticità; ecco il ritorno ossessivo della tradizione come parola-totem buona per ogni stagione, ogni talk show e ogni campagna elettorale.

Che il riconoscimento arrivi proprio ora non è un dettaglio. In un paese in cui la politica ha fatto della tradizione un’arma identitaria – dalla crociata contro gli insetti alla diffidenza verso la carne coltivata – l’Unesco cade come una colata di burro sui rigatoni. Perfetto per raccontare un’Italia rassicurante, immobile, saldamente ancorata alla sua cucina “di sempre”. Una cucina che, paradossalmente, non è mai esistita.

Nei secoli in cui la Francia costruiva la sua haute cuisine e il Giappone codificava i suoi riti gastronomici, gli italiani emigravano, facevano la fila per un pezzo di pane bianco, sognavano l’abbondanza più che la tradizione. La nostra grande epopea culinaria è tutta novecentesca: l’industria alimentare, l’arrivo del frigorifero, la televisione, Carosello. È lì che nasce l’Italia che oggi esportiamo come se fosse un’eredità immutabile, e non una brillante invenzione del boom economico.

Non è un male, anzi. È un racconto straordinario, umano, perfino commovente. Ma non è quello che abbiamo consegnato all’Unesco. Abbiamo preferito la via del marketing: l’Italia delle tavolate di famiglia con le tovaglie a quadri, del basilico sempre fresco, delle nonne immortali. Un’Italia che ci illude di essere depositari di un sapere ancestrale, quando la verità è che il nostro genio, come scriveva Leopardi riflettendo sulla natura umana, nasce spesso dalla mancanza, dalla fame, dal bisogno di cavarsela.

E allora sì, abbiamo ottenuto il riconoscimento. Ma non per ciò che siamo davvero: un paese che ha trasformato le sue fragilità in creatività, il suo passato di privazioni in una narrazione di successo planetario. No, lo abbiamo ottenuto per ciò che vogliamo che gli altri vedano. Abbiamo chiesto all’Unesco di consacrare non la nostra storia, ma il nostro autoritratto migliore.

Una grande occasione mancata. Potevamo presentarci al mondo con la nostra verità: corta, accidentata, contraddittoria, ma epica. Abbiamo preferito la cartolina. E come tutte le cartoline, rischia di finire presto nel cassetto, mentre la storia, quella vera, continua a chiedere di essere raccontata.

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