Il 21 ottobre il Centro di Competenze Territori AntiFragili del Politecnico di Milano ha pubblicato il primo “Atlante italiano dei morti e feriti gravi in bicicletta”. Le informazioni raccolte dal 2014 al 2023 rappresentate su mappe interattive. Ecco cosa servirebbe per rendere le strade più sicure per i ciclisti
Fanno sempre arrabbiare le morti innocenti. Soprattutto quando potrebbero essere arginate con poco, per esempio con una passata di vernice bianca per delimitare una ciclabile dal resto della carreggiata, come nel caso dei morti in bicicletta. Sono oltre 3mila le persone che in Italia hanno perso la vita negli ultimi dieci anni mentre pedalavano in bici. Andando in palestra, o al parco con i bambini, al lavoro.
A rilasciare questi dati è il Craft (Centro di Competenze Territori AntiFragili) del Politecnico di Milano che il 21 ottobre 2025 ha pubblicato l’atteso primo “Atlante italiano dei morti e feriti gravi in bicicletta”. Lo studio si basa sui dati Istat relativi a incidenti stradali con lesioni gravi o decessi e il gruppo di ricerca è coordinato dal professore Paolo Bozzuto, e vede il contributo di Fabio Manfredini, Emilio Guastamacchia e Shidsa Zarei.
Il progetto ha raccolto i dati dal 2014 al 2023 e li ha rappresentati su mappe interattive che visivamente ci restituiscono una grande verità: le strade non sono sicure. Le cinque dashboard interattive si possono consultare selezionando il proprio comune o per aggregazioni geografico-amministrative di livello superiore come province, regioni o tutta la Penisola.
«La ricerca mira ad approfondire la conoscenza del fenomeno degli incidenti ciclistici, indagando i fattori di rischio e le molteplici criticità (condizioni territoriali, infrastrutture, pratiche di utilizzo della strada, ecc.)» si legge sul sito.
I dati dell’Atlante
I risultati principali ci raccontano che il 68,42 per cento degli incidenti in bici è causato dall’impatto con auto, in particolare da scontri frontali-laterali. Le strade più pericolose sono quelle rettilinee a doppio senso, e a seguire gli incroci e le rotonde.
Per quanto riguarda l’Italia nel suo complesso si riscontra una specifica divisione tra Nord e Sud, per cui nel settentrione è maggiore il numero di incidenti, mentre nel meridione di morte. Per esempio la Lombardia ha il 97 per cento di lesività ma appena l’1 per cento di mortalità.
A livello più specifico, sul podio delle città per tasso di incidenti c’è Milano (10.372 casi), Roma (3.457) e Padova (3.132). Ma per numero di morti per abitante, la città siciliana di Enna si aggiudica il primo posto con un tasso di 17,65 per cento di mortalità. Guardando le regioni, la Lombardia è la regione con più incidenti (41.502 totali), seguita da Emilia‑Romagna (30.447) e Veneto (23.139).
Il profilo più a rischio è il ciclista maschio tra 45 e 64 anni, ma la letalità cresce bruscamente dopo i 65 anni: oggi quasi la metà delle vittime ha più di 65 anni.
Come si attraversa il cambiamento della mobilità urbana
Le città, i centri urbani, sono il luogo peggiore per chi decide di spostarsi in bicicletta, è lì che avvengono tre incidenti su quattro. E questo rapporto fa riflettere sull’importanza di politiche mirate quando si parla di sicurezza. Come la riduzione della velocità: a Bologna, dove il limite 30km/h ha permesso di ridurre in un anno il 48 per cento dei decessi stradali.
L’architetto urbanista Guastamacchia ha detto infatti «non diamo i risultati, diamo lo strumento», lasciando a istituzioni e cittadini il compito di indagare i dati (filtrando per luogo, anno, tipo di strada, ecc.) e pianificare interventi mirati.
Il primo passo per applicare gli obiettivi dell’Agenda 2030 europea in tema di mobilità è proprio l’introduzione del limite dei 30 km/h. «Non è una misura ideologica ma una scelta di sicurezza: nelle zone 30, nove persone su dieci sopravvivono a un investimento», spiega Loreto Valente, divulgatore di mobilità sostenibile (fondatore di Bring Your Bike e membro di Fiab e Salvaciclisti).
Ma se è vero che la trasformazione è possibile, è anche vero che va accompagnata. «Non dobbiamo aver paura nell’ammettere che una riduzione drastica del numero delle automobili o un limite alla velocità nelle città significa una maggiore sicurezza». Ma se il cambiamento di abitudini ci viene presentato come uno sforzo, una scelta impegnativa che ci toglie più che dare, le persone lo evitano. «Una mobilità diversa è quello che tutti auspichiamo, ma abbiamo paura a dirlo: il dibattito su ciclabili e zone 30 è stato polarizzato e strumentalizzato dalla politica», afferma.
In altre parole, le nostre abitudini si allineano alla percezione del rischio che abbiamo. E i dati parlano chiaro, le strade non sono sicure. «Il cambio dell’abitudine delle persone non è spontaneo, avviene nel suo tempo e deve essere forzato inizialmente», dice Valente ricordando i casi di Amsterdam, Parigi, Barcellona, che nei primi mesi dopo le nuove politiche urbanistiche a favore di una mobilità sostenibile hanno visto, paradossalmente si potrebbe dire, un aumento del traffico. «Il cambiamento prevede anche il disagio».
Ma oggi la cartina sulle emissioni atmosferiche di Parigi da rossa, è diventata verde. Sicura. «Se si osteggia questo cambiamento a livello politico», conclude Valente, «si mette indietro il diritto delle persone di circolare in sicurezza».
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