Giorgio Gaber lo diceva già trent’anni fa che gli italiani sono capaci di dividersi su tutto, quando cantava che «fare il bagno nella vasca è di destra / Far la doccia invece è di sinistra» e che «la cioccolata svizzera è di destra / La Nutella è ancora di sinistra». Nel 2025 siamo arrivati al punto che anche un argomento come la sicurezza sulle strade spacca a metà il paese: la destra è per la velocità, la sinistra per ridurla. Arrivando al paradosso di Bologna, dove il Comune ha introdotto il limite dei 30km/h e il ministero dei Trasporti lo ha portato in tribunale. In un paese dove la violenza sulle strade è la prima causa di morte per i giovani sotto i 29 anni.

Marco Scarponi questa violenza l’ha vissuta sulla sua pelle, quando suo fratello Michele, ciclista professionista che si stava allenando per il Giro d’Italia, è stato investito e ucciso a Filottrano, a poche centinaia di metri da casa, da un suo compaesano alla guida di un furgone. Sono passati otto anni e mezzo, e non è cambiato quasi niente. I ciclisti uccisi sulla strada nei primi nove mesi del 2025 sono stati 175, con un incremento del 12,2% rispetto ai primi nove mesi dell’anno prima. Dall’inizio di ottobre se ne sono aggiunti altri 20: abbiamo già superato i 185 ciclisti uccisi nel 2024, e mancano più di due mesi alla fine dell’anno.

Scarponi, che cosa succede in una famiglia come la sua? Quante sono le vittime della violenza stradale?

La vittima vera è una, gli altri sono vittime di un attentato. Quando un evento come questo ti colpisce da vicino la vita salta, non è più quella di prima, non ci sono più le coordinate, vieni buttato fuori dal tempo. Adesso, dopo più di otto anni, riesco finalmente a vedere le fotografie della nostra infanzia senza perdermi, riesco a prendere una distanza. Ho voluto il libro sulla vita di Michele anche per questo. Ma quello che è successo alla vita dei miei genitori fatico a dirlo con le parole.

Quando ha deciso di creare la Fondazione Scarponi?

Il giorno del funerale di Michele eravamo in macchina, e dissi ai miei che la vita di mio fratello non sarebbe finita lì. Sentivo che il nostro compito era fare qualcosa per gli altri nel nome di Michele, mi faceva orrore pensare che sarebbe stato ricordato solo quando passava il Giro d’Italia dalle nostre parti. Ho dedicato il mio tempo a questo, sapevo che la storia di Michele non può finire, può insegnare ancora qualcosa.

Perché legare la Fondazione al tema della sicurezza stradale?

Forse sarebbe stato più facile legare il suo nome ad altri temi. Ma io quel giorno ho visto la più grande ingiustizia della mia vita, si è aperta una porta che non avevo mai avuto il coraggio di aprire. Mi ricordo la gente che continuava a passare e lì per terra c’era mio fratello, ucciso, e mi chiedevo: perché non si fermano? Non capivo.

Adesso ha capito?

Abbiamo tutte le possibilità di cambiare il modo di vivere la strada, ma è difficile farlo come individui: è la politica che deve farlo, non si può discutere su un autovelox, quando i politici si dividono su questo è un fallimento, non si può discutere su un mezzo che serve a controllare la velocità.

Come mai anche un argomento come la sicurezza è diventato oggetto dello scontro politico?

Non c’è una vera conoscenza di come potrebbe cambiare la nostra vita. È un tema che la politica non vuole approfondire più di tanto, si preferisce buttarla in caciara. La politica ha sempre cercato di raccontare la violenza stradale come fatto privato, e la stampa ha coniato luoghi comuni che favoriscono l’irresponsabilità: non è l’auto che uccide, è l’uomo o la donna al volante a farlo. Non esistono strade killer. Incidente è una parola che deresponsabilizza: proviamo a chiamarlo omicidio. E neanche i pirati esistono, questo non è un film: il pirata della strada di volta in volta è una mamma, un papà, ognuno di noi. C’è una cultura dell’indifferenza, sulla strada tutto può succedere, l’importante è che passi l’auto.

Perché in Italia non si copia quello che fanno gli altri paesi? Perché non si investe sulla prevenzione?

La prevenzione non dà visibilità, è fonte di problemi e non porta voti. I nostri politici preferiscono presentarsi in gilet giallo dopo la tragedia. Si investe poco sull’educazione, è vista come una rottura, un processo troppo lungo di cui rischia di beneficiare qualcun altro. Certo, le risorse sono sempre meno, ma per le armi le troviamo.

Quali sono i provvedimenti più urgenti?

Bisognerebbe individuare un percorso, avere le risorse e portarle avanti. Se pensiamo che la violenza stradale è la prima causa di morte per ragazzi è ovvio che il percorso educativo andrebbe ampliato, che andrebbero rivisti i corsi delle scuole guida, il sistema di rinnovi delle patenti. Abbiamo un’emergenza, un numero altissimo di feriti e di vittime, la prima cosa da fare sono i controlli. E poi l’Italia ha bisogno di un programma di rinnovo delle infrastrutture, bisogna ridisegnare la strada e la città in modo che permetta a tutti di viverle serenamente.

Che cosa ha fatto la Fondazione in questi anni?

Il Progetto Scuola, un percorso di formazione e sviluppo sulla mobilità attiva e la sicurezza stradale, formando 15 educatori e incontrando oltre 60.000 studenti e studentesse in più di 100 scuole in tutta Italia. Ha promosso attività sportive dedicate ai giovani, come la Scuola di ciclismo “Michele Scarponi”, con 3 istruttori tecnici federali che hanno educato ai valori dello sport e della sicurezza stradale bambini e bambine dai 5 ai 12 anni, e una gara nazionale juniores, il Trofeo Michele Scarponi. Ha avviato il progetto SuperNova, un percorso di elaborazione del lutto dedicato ai familiari delle vittime della violenza sulla strada, ha organizzato eventi di sensibilizzazione alla sicurezza stradale e mobilità sostenibile (oltre 400 incontri in tutta Italia), ha promosso e sostenuto azioni e iniziative volte alla difesa di una strada per tutti.

Si sente supportato?

Sento che si potrebbero fare grandi cose, ma come diceva Michele bisogna allenarsi e credere molto in sé stessi. In realtà sento di andare a toccare degli ingranaggi stantii, vecchi, che rischiano di incatenarti. Noi abbiamo deciso di mettere al centro i giovani, ma il paese è vecchio, si fa fatica a fare le riforme. Si parla di cellulari, di alcol, tutto giusto, ma i temi sono le automobili e le moto, e nessuno li mette in discussione. E la campagna di odio contro i ciclisti sui social purtroppo è la spia della nostra cultura.

La storia di Michele si intitola “Profondo come una salita”. Perché?

Mio fratello era conosciuto da tutti per essere simpatico, leggero. Era amato da tutti, però a volte mi sembrava che molti si fermassero lì. Io ho sempre saputo che Michele pensava tantissimo, cercava di mettere tutti a loro agio, quel sorriso era un modo di togliere peso agli altri. La sua era una leggerezza calviniana, molto profonda, e mi piaceva mettere questa profondità in parallelo con la salita, che è il tratto di strada più emblematico del ciclismo. La salita ti spoglia, in salita non puoi fare il doppio gioco.


Il libro

«Michele Scarponi - Profondo come una salita» è il libro che racconta per parole e immagini, molte delle quali inedite, la storia del corridore marchigiano, ucciso sulla strada il 22 aprile 2017, mentre si stava allenando per il Giro d’Italia, che avrebbe corso da capitano dell’Astana. Il libro, scritto da Alessandra Giardini, non si trova in edicola, ma si può prenotare sul sito della Fondazione a questo link o contattando la Fondazione al numero 3475929666 o alla mail info@fondazionemichelescarponi.com

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