Il 2025 potrebbe segnare una piccola svolta nella mobilità italiana. Il Piemonte ha deciso di rompere un tabù: con l’iniziativa “Piemove” garantisce trasporto pubblico gratuito agli studenti universitari under 26 con Isee inferiore a 85.000 euro. Una misura che copre, secondo le stime ufficiali, il 92 per cento degli iscritti agli atenei regionali.

L’accordo coinvolge sei capoluoghi (Torino, Asti, Biella, Cuneo, Novara e Vercelli), tre università e una regia interministeriale atipica. Il programma dura tre anni, finanziato con 37,2 milioni di euro: 22,8 milioni arrivano dal ministero dell’Ambiente, il resto da università e fondazioni bancarie. L’operazione è stata salutata dalla ministra Anna Maria Bernini come un «modello nazionale». Ma è proprio la retorica a svelare il nodo: se è un modello, perché resta un’eccezione?

Piemove è l’unico caso italiano di trasporto gratuito per gli universitari su scala regionale. Non c’è una legge nazionale, non c’è un piano di estensione. Il finanziamento dipende da fondi ambientali temporanei, legati al miglioramento della qualità dell’aria nella Pianura Padana. Nulla a che vedere con una politica dei trasporti. La cornice è ambientale, non sistemica. E se oggi funziona, nulla garantisce che sopravviva oltre il triennio previsto. L’architettura finanziaria si regge su equilibri locali: fondazioni come Crt e San Paolo, che contribuiscono con 9 milioni complessivi, non esistono ovunque. E proprio per questo, replicare il modello in regioni prive di soggetti simili appare improbabile.

A rendere il quadro ancora più paradossale, la presenza condizionata: solo chi è in corso può accedere al beneficio. Restano esclusi i fuoricorso, che spesso sono lavoratori, fuori sede, o studenti con carichi familiari. In nome della “meritocrazia” si perpetua una selezione che colpisce i più fragili. Inoltre, il sistema impone sessanta timbrature l’anno per mantenere l’abbonamento, come se il diritto allo studio fosse una fidelizzazione commerciale.

Alla ricerca dell’alternativa

Il contrasto tra l’eccezione piemontese e il quadro nazionale è brutale. L’Italia è il paese europeo con il più alto tasso di motorizzazione: 684 auto ogni mille abitanti. Allo stesso tempo, registra una delle quote più basse di utilizzo del trasporto pubblico: tra il 7 per cento e l’8 per cento degli spostamenti quotidiani. A Roma solo il 18 per cento dei cittadini considera il Tpl un’alternativa all’auto. La spesa pubblica nel settore è ferma allo 0,8 per cento del Pil, contro l’1,5 per cento della Francia e il 2 per cento della Germania.

Il rapporto Pendolaria di Legambiente fotografa ogni anno un paese spaccato. Il Sud viaggia su linee a binario unico, non elettrificate, con convogli vecchi e orari ridotti. In Sicilia l’85 per cento della rete è a binario unico e il 46 per cento non è elettrificata. Alcune linee sono sospese da oltre un decennio. A Nord va meglio, ma resta la frammentazione: tariffe diverse, biglietti non integrati, orari incompatibili tra bus e treni.

Cosa fanno gli altri

Fuori dai confini italiani, il trasporto pubblico è trattato come una leva strategica. Il Lussemburgo ha reso gratuiti tutti i trasporti dal 2020, finanziandoli con la fiscalità generale. La Germania ha introdotto il Deutschlandticket a 49 euro al mese per tutta la rete regionale, con una versione ridotta per gli studenti. A Vienna l’abbonamento integrato costa un euro al giorno. A Tallin e Ginevra i giovani residenti non pagano. L’Italia, invece, affida la speranza di cambiamento a una misura sperimentale, parziale, e pensata fuori dal ministero dei Trasporti.

Ma una domanda aleggia: perché il titolare di quel dicastero, Matteo Salvini, non ha messo la faccia su Piemove? La risposta è politica. L’operazione è stata interamente gestita da due esponenti di Forza Italia: Gilberto Pichetto Fratin (Ambiente) e Bernini (Università). La Lega è rimasta ai margini, come se il trasporto pubblico non la riguardasse. Una marginalizzazione tattica, forse.

Ma anche sintomo di una frattura: Salvini preferisce il cemento del Ponte sullo Stretto ai bus locali. L’assenza di Alessandria dal progetto – per una “dimenticanza” burocratica – è una metafora perfetta: l’Italia resta il Paese in cui la mobilità dipende da chi governa, da dove governa e da quali fondi riesce a strappare.

Il caso Piemove fotografa la dinamica interna alla maggioranza: una guerra fredda tra visioni incompatibili. Forza Italia propone un modello europeo, sussidiario e “verde”, in linea con il Ppe. La Lega difende l’automobilista e le infrastrutture faraoniche. Fratelli d’Italia invoca riforme organiche ma senza muovere un passo concreto. Così il sistema si muove a scatti, tra iniziative episodiche e assenza di pianificazione. Il fondo nazionale trasporti resta sottofinanziato. Le carenze di personale nei servizi locali sono croniche. Il recovery post-Covid è incompleto.

Piemove, in questo scenario, è una buona notizia usata come strumento di propaganda. Ma la propaganda non regge a lungo se non si accompagna a un salto di qualità. Servirebbe un piano nazionale, una visione coerente, investimenti strutturali, integrazione tra mezzi, una legge quadro che renda il diritto alla mobilità uno standard e non una lotteria. Invece ci si affida ai fondi dell’aria padana per tappare i buchi lasciati dal ministero dei Trasporti. Si celebra una sperimentazione senza chiedersi perché non sia la norma.

Il rischio è chiaro: che tra tre anni, alla scadenza dei finanziamenti, il Piemonte torni indietro. E che l’Italia resti il paese dove lo studente può sì viaggiare gratis. Ma solo se ha meno di 26 anni, è in corso, risiede nel posto giusto, ha fatto sessanta timbrature e non vive ad Alessandria.

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