Se Bologna è una regola, come canta Luca Carboni, Lorenzo De Silvestri ha nella Coppa Italia la sua personale norma. Ne ha vinte due, la prima nel 2009 con la Lazio, la seconda appena conquistata con il Bologna. In quest’arco temporale di 16 anni è racchiusa la carriera di un calciatore assai lontano dal classico stereotipo. 449 presenze in Serie A, 28 gol, 6 volte in Nazionale.

Un girovago che è riuscito a piantare radici profonde in ogni città in cui ha posato le valigie. Zero tatuaggi, la curiosità come peculiarità, una passione sfrenata per l’arte e per le visite ai musei, laureato in Economia. Il 23 maggio compirà 37 anni ma vecchio non si sente proprio: «Voglio continuare a giocare ancora un po’, fisicamente sto bene. La settimana scorsa rivedevo la foto della Coppa Italia alzata con la Lazio, avevo 21 anni, ero un ragazzino. Adesso questo trionfo ha un sapore pieno, me lo gusto con più consapevolezza».

Il concetto anglosassone di leader by example sembra cucito addosso al capitano di tante battaglie, al “sindaco” come viene nominato dai tifosi del Bologna. Nato a Roma, quartiere Monteverde, per iniziare a giocare a calcio ha dovuto sfidare il veto di papà Roberto che del pallone per il figlio non ne voleva sapere.

«Sorrido quando vedo i genitori che insistono per iscrivere alle scuole calcio i figli di sei anni. Mio padre considerava educativi gli sport di fatica come lo sci di fondo, l’atletica, la ginnastica. Mi ha inculcato lo spirito del sacrificio. Ci sono voluti alcuni anni per convincerlo, grazie alla complicità di nonno Dino, il papà di mia mamma. Ecco perché ho iniziato a giocare tardi, a 12 anni».

Le giovanili nella Lazio, l’esordio in A il 22 aprile 2007 in Lazio-Fiorentina. Aveva 18 anni. Allenatore Delio Rossi, che poi ritroverà alla Sampdoria.

È il mio padre calcistico, mi ha disciplinato a livello tecnico e tattico. Ha investito tanto su di me. Ogni giorno si fermava mezz’ora in più con me per un allenamento personalizzato. Senza Delio Rossi non sarei diventato il calciatore che sono.

Dieci anni in biancoceleste, tra settore giovanile e prima squadra, poi approda alla Fiorentina, dal 2009 al 2012.

La mia prima volta fuori casa. A Firenze sono diventato grande. Ricordi meravigliosi delle notti di Champions, su tutte la vittoria ad Anfield contro il Liverpool

Il viaggio continua. Arriva a Genova, quattro anni con la Sampdoria.

Genova rappresenta l’amore, perché lì ho conosciuto la mia anima gemella Carlotta, diventata mia moglie. Una conoscenza lenta, consolidata con il tempo. Un po’ come con la città che non ti entra subito dentro, è diffidente, ma quando inizi ad amarla non puoi più vivere senza. A livello calcistico gli anni della Sampdoria mi hanno consacrato. Vedere la squadra appena retrocessa in serie C è una grande sofferenza.

Altro giro, altra corsa. Dal 2016 al 2020 al Torino. I tifosi granata la ricordano con affetto. Ovunque sia andato lei ha lasciato solo ricordi positivi. Per tutti è Lollo, nessuno la chiama mai Lorenzo.

A Torino ho vissuto la mia stagione migliore a livello realizzativo, ho segnato sette reti durante il primo anno, non poche per un difensore. Perché le persone mi stimano? Non ho ricette. Credo di essere una persona vera, questo si. Mi riconoscono la determinazione nel saper fare gruppo, la serietà e la disponibilità.

Arriviamo al Bologna, dove è alla sua quinta stagione. Merito di Mihajlovic che l’ha chiamata. È l’allenatore che aveva già avuto alla Fiorentina, alla Sampdoria e al Torino. Un rapporto intenso, forte, con anche litigi. 

È stato il mio secondo padre. Mi ha insegnato a prendere di petto ogni situazione. Mi ha fatto piangere quando non mi schierava titolare a Firenze, io mi consideravo già arrivato, avevo esordito in Nazionale, forse avevo iniziato inconsciamente a tirarmela, lui mi ha riportato con i piedi per terra a muso duro. C’è sempre stato per me, ed è sempre con me. Come io ci sarò sempre per i suoi figli, li sento, ci vediamo.

Mihajlovic, arrivato nel 2018-2019, ha costruito le fondamenta di questo Bologna che ha fatto la storia. L’anno scorso la Champions ritrovata dopo 60 anni. Adesso la Coppa Italia a distanza di 51 anni dall’ultima volta. 

All’Olimpico erano in 30mila, si è mossa tutta la città. Una data che rimarrà storica il 14 maggio 2025. Un trofeo vinto da un gruppo che vale. Il nostro motto We are one non è uno slogan acchiappalike. Noi siamo veramente una famiglia. Il presidente Saputo lo aveva detto: date 10 anni di tempo al mio progetto.

Joey Saputo, imprenditore canadese di origine italiana, ha acquistato il Bologna nel giugno del 2014. In dieci anni sono stati investiti 289 milioni. Grazie agli introiti della Champions e delle cessioni (Calafiori, Zirkzee) per la prima volta il Bologna chiuderà il bilancio 2025 in utile.

Una gestione lungimirante, fatta di semina e di raccolta. Il presidente è autoritario ma come tutti i grandi leader sa delegare, ha messo le persone giuste nei ruoli chiave. È stata una crescita costante, anche imparando dagli errori fatti. Saputo ha un’aura particolare, è sempre presente ma non invadente, è schivo ma cura tutti i dettagli, per dire conosce tutti i nomi di mogli, fidanzate, figli. È speciale.

È speciale anche Vincenzo Italiano?

Si è seduto su una panchina che scottava, tutti gli facevano notare che non avrebbe potuto ripetere ciò che aveva realizzato Thiago Motta. Ci ha convinto delle sue idee, ha alzato il baricentro del pressing, con un gioco aggressivo e dominante. Siamo la squadra che ruba più palloni in attacco. È preparatissimo, ci dà mille indicazioni. Noi lo ascoltiamo, lui con empatia ha saputo accogliere alcune dinamiche dello spogliatoio, come i nostri riti musicali. Si è fatto voler bene.

Eppure le ha negato la gioia di giocare in Champions quest’anno. Italiano ha escluso De Silvestri dalla lista Uefa.

All’inizio ci sono rimasto male, perché mi sentivo uno dei protagonisti della cavalcata Champions. Ci siamo parlati, faccia a faccia, mi ha fatto delle promesse. È stato di parola, in campionato ho avuto uno spazio importante. Abbiamo costruito un rapporto da uomini veri. Io ho cercato di spostare il focus, ho capito che avrei dovuto dare l’esempio per il gruppo, ragionando con il noi e non in prima persona.

Durante i festeggiamenti della Coppa Italia, le prime parole di Italiano sono state proprio per lei: grazie a De Silvestri che è la nostra guida. La parola grazie riecheggia in tutta la città in questi giorni.

Tantissimi tifosi per strada mi fermano per dirmi: grazie per avermi fatto vivere in prima persona un trofeo che mi aveva raccontato mio nonno. Anche io dico grazie a Bologna, è diventata la mia città, adoro viverla dal di dentro, ho appena comprato quella che sarà la mia casa definitiva.

Un 2025 da ricordare per la famiglia De Silvestri, casa nuova, Coppa Italia e a luglio nasce la prima figlia.

Da brividi. Non vedo l’ora di diventare papà della piccola Lea. Il nome lo abbiamo scelto perché significa leonessa. Vogliamo impegnarci a crescere una donna forte, indipendente. Proprio come mia moglie, anche lei nella vita è stata una leonessa.

Carlotta Mazzitelli è una ricercatrice oncologica dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. A 12 anni ha perso il padre per un tumore, da allora ha scelto di fare della ricerca la sua missione.

E io ho abbracciato la sua missione. Il suo lavoro mi riporta alla realtà, quando magari torno a casa un po’ abbacchiato per un risultato, c’è lei a raccontarmi la sua giornata. Il nostro amore è fatto di complicità e condivisione. Cerco di utilizzare la mia immagine per aiutare la ricerca contro i tumori. Siamo entrambi ambasciatori della Fondazione Sant’Orsola e dell’AIRC. Cerco di far capire alle persone che dietro la parola ricerca si nasconde un lavoro costante, paziente, che spesso viene trascurato perché ottiene pochi finanziamenti. È un impegno che va alimentato continuamente, e sostenuto nel quotidiano.

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