Quando tutto iniziò, quando venni a sapere, a pochi giorni dalla chiusura della mia università nella seconda metà di febbraio del 2020, che il corso che avevo iniziato in presenza sarebbe andato online, che dalla cattedra “reale” mi sarei dovuto trasferire, in pochi giorni, a una a distanza, sono andato in crisi. Non avevo mai, sino ad allora, insegnato al computer, gestito un’aula virtuale.

L’unica volta che avevo dovuto, anni prima per un corso di formazione online, registrare da solo al pc una lezione senza incrociare gli sguardi degli studenti avevo fatto un sacco di errori e avevo dovuto cancellare la registrazione e ripetere l’operazione almeno un paio di volte.

L’aula come un teatro

Sono, lo confesso, un professore all’antica, di quelli senza slides, per i quali l’aula è un teatro e la lezione una rappresentazione influenzata e arricchita moltissimo dall’interazione con i partecipanti, che non solo possono, con le loro espressioni, farmi capire all’istante se il discorso che sto facendo funzioni o non funzioni e quanto funzioni, ma anche, intervengono, commentano, chiosano. 

Sono davvero soddisfatto di una lezione quando ho l’impressione di avere, all’uscita dall’aula, non soltanto insegnato ma anche imparato qualcosa che non sapevo, aperto una nuova pista di riflessione, gettato qualche nuovo seme per le mie ricerche. Da questo punto di vista, quello che avviene dopo la lezione, nei corridoi, su per le scale, nelle conversazioni improvvisate e spontanee è spesso importante per la produzione e la trasmissione del sapere quanto quello che avviene dentro l’aula.

Insomma alla fine di una lezione sono felicemente spossato e passare, per stare nella metafora, dal teatro alla tv, dalla stanza reale al piccolo schermo del pc, è stato un piccolo trauma. Un leggero sconvolgimento, che però ho superato molto più in fretta di quanto avessi immaginato al principio.

Tutto a distanza

La notte precedente le prime lezioni online ho dormito malissimo e per la prima volta dopo anni ho avuto bisogno, per affrontare il terrore del vuoto, la paura del silenzio imbarazzante, del supporto di un foglietto con una rigida scaletta degli argomenti che volevo affrontare. Ma i timori sono durati poco. Dopo un paio di settimane avevo già preso la mano con il nuovo sistema e ritrovato la scioltezza e la fluidità dei giorni migliori.

Comprendo però solo ora, a distanza di un paio d’anni da quei giorni, che quel primo corso fu ancora condizionato pesantemente dall’essere iniziato in presenza. Avevo conosciuto le ragazze e i ragazzi che vi partecipavano di persona, ci eravamo frequentati in carne e ossa per alcune settimane e questo elemento si sarebbe rilevato determinante: i giovani più vivaci e attivi in aula hanno infatti continuato a esserlo anche online e io sono riuscito a invocarne la presenza e gli interventi senza grandi difficoltà.

Abbiamo insomma vissuto quelle settimane di corso come se rappresentassero una sorta di sospensione temporanea di una frequentazione dal vivo che avevamo iniziato e che avremmo proseguito quando l’emergenza fosse rientrata.

Negli anni successivi, ormai quasi due, le cose sono radicalmente cambiate sotto questo e altri profili. Prima di tutto la didattica online è diventata la normalità. Nei periodi più duri della pandemia è stata l’unica modalità di insegnamento. Nelle fasi meno drammatiche ha convissuto, nel formato blended (misto), con quella in presenza, nel senso che chi, tra gli studenti, ha voluto è venuto in aula e chi ha preferito restare a casa ha seguito la lezione online o (negli atenei che l’hanno consentito) ha visto la lezione registrata in differita.

Il ricorso alla didattica mista è stato generalizzato e in qualche misura obbligato, vista l’emergenza pandemica. Non ho a disposizione dei dati, ma credo che l’impatto non sia stato il medesimo ovunque e che lo svuotamento delle aule “reali” a vantaggio di quelle virtuali sia stato più accentuato in alcune realtà che in altre.

Questo è dipeso, immagino, da tante variabili, ad esempio dalle infrastrutture complessive dei diversi territori, dalla facilità dei collegamenti o dalla condizione professionale degli studenti, da quanti di essi sono lavoratori e da quanti invece studiano a tempo pieno. È plausibile che le aule si siano riempite di più per i corsi dei primi anni dei trienni, popolati da studenti freschi di diploma delle superiori ansiosi di iniziare una nuova esperienza esistenziale. In ogni caso per quasi tutti i docenti italiani è divenuto normale avere una parte di studenti in aula e un’altra, molto spesso ampiamente maggioritaria, a casa.

Cosa resta

È impossibile negare che l’online si sia rivelato vantaggioso per i nostri giovani da molti punti di vista, non foss’altro perché ha consentito loro di risparmiare sui trasporti come sul vitto e l’alloggio e ha permesso a tanti studenti pendolari di evitare di perdere il loro tempo sugli autobus o sui treni.

Soprattutto nei casi di corsi sovraffollati, con aule strapiene, studenti pigiati come sardine o seduti per terra e proprio per questo più inclini alla distrazione e al mugugno (che impedisce anche agli altri di seguire la lezione) e professori inavvicinabili, la lezione a distanza ha rappresentato, per tutti, anche per i professori, un vantaggio netto e difficilmente discutibile.

Per un altro verso l’online ha dato la possibilità inedita a studenti che vivono in luoghi remoti e che non possono facilmente allontanarsene, spesso per mancanza di mezzi, di iscriversi ai migliori corsi di laurea del paese. Infine l’online ha consentito anche a chi lavora a tempo pieno di accedere, grazie alle registrazioni, a lezioni universitarie che sarebbero state semplicemente impossibili da frequentare.

Tutto questo è innegabile e va riconosciuto. Eppure, il blended, la didattica mista, ci ha anche levato molto, forse privandocene per sempre. Torno alla mia esperienza che so essere molto simile a quella di tanti altri colleghi in tutta la penisola.

Innanzitutto per quanto mi sforzi ostinatamente di includere tutti nella lezione e non solo il gruppetto degli studenti che mi trovo di fronte mi rendo conto di interagire con molta maggior frequenza e intensità con quelli che mi guardano dal vivo, i cui sguardi e le cui espressioni posso costantemente osservare.

Va poi detto che la distanza con quelli che sono a casa è amplificata dalla spiccata passività di questi ultimi, dalla loro tendenza a chiamarsi fuori dal gioco della lezione. Innanzitutto quando sono online i ragazzi non si mostrano, preferiscono non accendere la telecamera, non farsi vedere. Non li si può certamente obbligare, ma questa asimmetria cambia completamente il contesto comunicativo, provoca un abbattimento della reciprocità, fa assomigliare la lezione a un evento televisivo, dove tanti spettatori muti e invisibili assistono alla performance di uno solo.

Quando stanno a distanza poi, gli studenti non solo non si mostrano, ma nemmeno intervengono, probabilmente anche perché, per loro stessa ammissione, distratti da quello che succede intorno a loro: dai messaggi sul telefonino, dall’aspirapolvere della mamma, dal cane del vicino che abbaia.

Infine, tra il gruppo dei presenti in aula e quello di chi è rimasto a casa si crea come un fossato, una divisione, materiale ma anche morale: quelli in classe sembrano infastiditi, quando parlano, dal dover (con qualche difficoltà pratica), far sentire la loro voce anche a quelli che sono a casa e in generale sembrano pensare di avere dei diritti in più per il mero fatto di essere presenti in classe.

Il punto è che, nato con la nobilissima e sacrosanta intenzione di mantenere vivo l’insegnamento universitario in tempi nei quali frequentarsi dal vivo è complicato e pericoloso, la didattica online rischia di diventare un’opzione irreversibile, dal momento che chi dirige gli atenei potrebbe pensare che, visti i suoi vantaggi e il gradimento di tantissimi studenti, interromperla sarebbe inopportuno e rischioso. Io penso che sia meglio rifletterci ancora, prima che sia troppo tardi.

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