Per il capo della banda dei torturatori in divisa, Alessandro Migliore, la giudice di Verona avrebbe preferito la richiesta della custodia cautelare in carcere, vista la gravità delle condotte. Per il poliziotto, invece, sono scattati i domiciliari così come per altri quattro agenti, su richiesta della locale procura che li indaga per diversi reati a partire dalla tortura per aver picchiato, schernito e umiliato diversi fermati.

In tutto gli indagati sono ventidue, per altri 17 la giudice, Livia Magri, ha ricevuto dalla procura la richiesta di misura interdittiva che valuterà nei prossimi giorni con l’emissione di una nuova ordinanza. Migliore aveva messo in piedi un sistema fatto di amicizie con criminali ai quali riservava una finta perquisizione domiciliare in cambio di regalie, ingressi alla discoteca e droga. Ma soprattutto pensava di aver garantita la piena impunità per la divisa che indossava.

La giudice, infatti, giustifica la misura cautelare dei domiciliari perché la commissione di ulteriori illeciti «sarebbe certamente agevolata dalla comune appartenenza all’ufficio potendo gli indagati giovarsi dell’adesione mostrata dai colleghi nel corso delle azioni delittuose, condizione che ha finora garantito loro assoluta impunità a fronte degli innumerevoli illeciti», si legge nelle carte dell’inchiesta.

Migliore si vantava perfino di andare in giro a rubare biciclette o accaparrarsi droga sequestrata agli spacciatori.

Dalle intercettazioni disposte nell’ambito di un altro procedimento si è arrivati alla banda dei torturatori di stato che, con pugni, schiaffi, botte e umiliazioni, come ripulire urina con il corpo dei fermati, hanno calpestato la dignità delle vittime e disonorato la divisa.

Quello che è accaduto a Verona non è un caso isolato, si collega ad altri episodi di violenza inaudita praticata dalle forze dell’ordine: dal caso Hasib a Roma (coinvolti tre poliziotti) a quello recente di Bruna a Milano (indagati tre agenti della polizia locale) al caso della caserma di Piacenza (coinvolti e condannati militari dell’arma dei carabinieri).

Il filo rosso è la condizione di subalternità delle vittime, percepiti come reietti della società o perché affetti da dipendenze, alcool o droghe, o perché in una condizione economica svantaggiata o perché provenienti da altri paesi, classificabili, insomma, come disperati, ultimi, senza potere.

Piacere agli amici

Migliore, uno dei poliziotti arrestati, si compiaceva al telefono delle sue condotte sadiche e violente, pugno di ferro con gli ultimi e piaceri agli amici, come il criminale albanese, Artan Bajraktari, di mestiere trafficante d’armi. Il fratello di Bajraktari aveva minacciato alcuni conoscenti e l’ex fidanzata con una pistola, dopo la denuncia delle vittime gli sono piombati a casa i poliziotti.

Quando hanno scoperto, trovando i passaporti, l’identità dei proprietari dell’abitazione, Migliore e soci hanno rubricato come negativo l’esito degli accertamenti nonostante la presenza di armi all’interno dell’abitazione.

Così al telefono il trafficante raccontava l’atteggiamento degli agenti: «Sono salito subito sopra e ho tirato fuori due, avevo due pistole sopra, sopra la cucina! (...) Appena sono andato lì e tutti i poliziotti stavano a testa bassa, hanno detto “scusaci! scusaci perché abbiamo avuto ordine dal tribunale ad andare”...», dice Bajraktari. Lo stato in ginocchio del trafficante d’armi, con tante scuse e armi ignorate per compiacere l’amico di uscite e bagordi, il Piper era la discoteca frequentata da Migliore e sodali.

Scuse, ossequi e cortesie per i conoscenti che contano a fronte di botte, umiliazioni e sberle per chi non conta niente, «soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora, ovvero affetti da gravi dipendenze da alcool o stupefacenti, dunque soggetti particolarmente deboli», scriva la giudice Magri.

Una condizione che garantiva agli indagati l’assoluta impunità per l’impossibilità delle vittime di denunciare e il grado basso di attendibilità in caso di denuncia. Le intercettazioni hanno fatto saltare lo scudo di impunità del quale si sono serviti i poliziotti coinvolti nell’indagine.

Gli altri casi

Le vittime di Verona ricordano un altro caso, accaduto a Roma, nel luglio dello scorso anno, che ha coinvolto un cittadino di origine rom, sordomuto, Hasib Omerovic. Durante una insolita e ingiustificata irruzione a casa di Omerovic, la vittima avrebbe subito abusi e colpi prima di lanciarsi nel vuoto e finire in ospedale, si è salvato miracolosamente. Lo scorso dicembre, il giudice Ezio Damizia ha disposto i domiciliari per un poliziotto, Andrea Pellegrini, indagato per tortura, avrebbe compiuto «violenze e minacce (...) in danno di una persona inerme attraverso un’irruenza minatoria».

Nella vicenda sono indagati anche altri tre colleghi, tra questi c’è un agente che ha confermato la ricostruzione dei fatti, ma la procura ancora indaga per stabilire definitivamente quanto accaduto.

Non c’è solo il caso Hasib, anche la donna trans picchiata, nei giorni scorsi, a Milano dagli agenti della polizia locale è l’ennesimo episodio di angherie e violenze contro una persona indifesa. Lo stesso è accaduto, in maniera sistematica e organizzata, quando i poliziotti penitenziari hanno scelto il reparto Nilo, il sei aprile 2020, per mettere in atto il pestaggio di stato all’interno del carcere Francesco Uccella. Per quattro ore hanno picchiato i detenuti inermi, un mese dopo uno di loro, Lamine Hakimi, è morto dopo i colpi subiti, l’ingiusto isolamento e l’assunzione letale di un mix di sostanze. Era affetto da disturbi e in carcere neanche doveva entrare.

Il Nilo è proprio il padiglione degli ultimi, dove ci sono anche reclusi con problemi mentali e tossicodipendenti. Lo scrive bene la giudice di Verona che ha firmato le richieste cautelari, accanirsi sugli ultimi è una garanzia di impunità, non denunciano e anche se lo facessero la loro parola conterebbe poco o niente.

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