L’attivista iraniana Narges Mohammadi è la vincitrice del 131esimo premio Nobel per la pace «per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti». A causa del suo attivismo è stata arrestata dodici volte, la prima nel 1998, e condannata a 31 anni di carcere e 154 frustate. È la vice presidente del centro per la difesa dei diritti umani, un’organizzazione non governativa guidata da Shirin Ebadi, avvocata e pacifista iraniana vincitrice del premio Nobel per la pace nel 2003.

Chi è Narges Mohammadi

«La lotta per il cambiamento è costata a Narges Mohammadi la sua carriera, separandola dalla famiglia e privandola della libertà. Ma una cella non è riuscita a farla tacere», scriveva il New York Times a giugno. 

Mohammadi è un’ingegnera e scrittrice e ha una famiglia che non vede da tempo. È cresciuta in un ambiente attivo dal punto di vista politico e, dopo il rovesciamento della monarchia nel 1978-1979 e l’instaurazione della repubblica islamica sciita, uno zio attivista e due cugini furono incarcerati. All’università, dove ha conosciuto il marito Taghi Rahmani, ha fondato il primo gruppo studentesco femminile e uno di impegno civico. Il marito è scrittore e attivista, è stato in carcere per 14 anni e vive in esilio in Francia insieme ai due figli.

In seguito alle sue battaglie, nel 2008 il governo ha costretto la società edilizia per cui lavorava a licenziarla. Negli anni si è dedicata anche a contrastare l’uso della pena di morte. L’Iran, infatti, è uno dei paesi con il più alto numero di persone giustiziate. Da gennaio 2022 sono stati punite con la pena di morte più di 860 persone. Il dissenso le è costato un nuovo arresto, ma al ritorno in prigione ha continuato comunque a opporsi, dedicandosi in particolare a contrastare l’uso della tortura e della violenza sessuale contro i prigionieri politici, in particolare donne.

Al momento si trova nel carcere Evin di Teheran per «diffusione di propaganda antistatale». Le motivazioni dei molti anni di detenzione sono da imputare esclusivamente alla sua «battaglia per i diritti umani», ha detto Amnesty International. Proprio Amnesty ha denunciato più volte le situazioni disumane che Mohammadi ha vissuto e sta tutt’ora affrontando in prigione. È stata sottoposta a tortura, maltrattamento e le sono stati negati i farmaci prescritti dal medico per le sue difficoltà respiratorie. 

Taghi Rahmani ha detto al New York Times che quest’anno sono stati aperti altri tre casi giudiziari nei confronti della moglie e che quindi potrebbero arrivare ulteriori condanne.

La situazione delle donne in Iran

Anche dal carcere Mohammadi ha incoraggiato la disobbedienza civile, in particolare in un periodo di forti tensioni per l’Iran. Dopo la morte di Mahsa Jina Amini, detenuta e uccisa dalla polizia morale con l’accusa di non aver indossato correttamente il velo, è iniziata la più grande ondata di disordini popolari dal 1979.

Con lo slogan «woman, life, freedom» centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in questi mesi per opporsi al regime iraniano. Più di 500 manifestanti sono stati uccisi, migliaia i feriti, almeno 20mila le persone arrestate.

In questi giorni si è parlato di un episodio che si teme possa diventare il nuovo caso Mahsa Amini. Si tratta di Armita Garawand, sedicenne originaria di Kermanshah e residente a Teheran, in coma da domenica dopo essere stata aggredita e arrestata dagli agenti della polizia morale perché non indossava l’hijab.

I Nobel controversi

Nessun premio consegnato è mai stato ritirato dalla commissione fino a ora, anche se alcuni Nobel hanno suscitato molte discussioni.

Nel 2019, fu vinto dal primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali «per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale e in particolare per la sua iniziativa decisiva per risolvere il conflitto al confine con la vicina Eritrea».

Nei primi mesi al potere Abiy aveva liberato i prigionieri politici e promesso libere elezioni in Etiopia. La vittoria era derivata in gran parte dall’accordo di pace che aveva stretto con il leader autoritario dell’Eritrea, Isaias Afwerki, qualche mese dopo essere salito al potere. Grazie a quell’accordo aveva messo fine ad anni di guerre e ostilità. Ma in realtà quella apparente tregua si è rivelata solo una situazione momentanea.

Un anno dopo il Nobel, l’Etiopia ha affrontato una guerra – che si è conclusa con la pace di Pretoria il 2 novembre 2022 – nella regione del Tigrè. In quei due anni le forze governative sono state accusate di violenze sessuali, fisiche e di pulizia etnica.

Una storia simile ha riguardato la leader del Myanmar Aung San Suu Kyi, che ha ricevuto il Nobel nel 1991. Si era opposta al regime militare, diventando il simbolo della resistenza pacifica contro l’oppressione. Nel 1989 era stata arrestata per la prima volta e da quel momento è stata incarcerata a più riprese per 15 anni. Nel 2010 è uscita dal carcere ed è diventata la leader informale del Myanmar nel 2016.

Di fronte alle violenze dell’esercito birmano contro la minoranza di fede musulmana rohingya la leader non è mai intervenuta, ma anzi, le ha minimizzate e negate apertamente di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Aung San Suu Kyi è rimasta la leader de facto fino al 2021, quando c’è stato un ennesimo colpo di stato ed è stata nuovamente incarcerata. Al momento si trova in carcere per corruzione, possesso di walkie talkie illegali e violazione delle restrizioni Covid-19.

Chi ha ricevuto il premio quando era in carcere

Oltre all’attivista iraniana Narges Mohammadi, alla leader del Myanmar Aung San Suu Kyi e all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, ci sono stati altri due vincitori del premio Nobel che si trovavano in carcere al momento della premiazione: Carl von Ossietzky e Liu Xiaobo. 

Il pacifista e giornalista Carl von Ossietzky è stato organizzatore del movimento Mai più la guerra nel 1922 e direttore del settimanale Weltbühne, che fu per lui uno strumento per schierarsi contro il riarmo tedesco. Fu condannato per alto tradimento e poi internato in un campo di concentramento nel 1933. 

Grazie alle pressioni internazionali era stato scarcerato nel 1936, un anno dopo aver preso il Nobel, ma era morto poco dopo a causa delle conseguenze della detenzione.
Anche l’attivista per i diritti umani Liu Xiaobo ha passato gran parte della sua vita in carcere accusato di «incitamento al sovvertimento dello stato». Nel 1898 aveva preso parte alle proteste di Tienanmen. È stato anche promotore di Carta08, l’appello a una riforma democratica del sistema politico cinese.

Il 26 giugno 2017 è stato posto in libertà condizionata per motivi di salute: era malato di cancro al fegato in fase terminale. Il governo cinese gli ha negato di trasferirsi all’estero per ricevere le adeguate cure. Pochi giorni dopo, il 13 luglio, è morto in ospedale.

I vincitori del 2022

Nella scorsa edizione il Nobel per la pace è stato conferito ad Ales Bialiatski e a due organizzazioni umanitarie, una ucraina e una russa. Bialiatski è un attivista bielorusso tra gli iniziatori del movimento democratico antisovietico del paese e uno dei maggiori oppositori di Lukašenko. È stato incarcerato più volte per le sue battaglie per la tutela dei diritti umani, l’ultima volta nel 2023 quando è stato condannato a dieci anni perché ritenuto colpevole di finanziamento e contrabbando di attività che violano l’ordine pubblico.

Le due organizzazioni umanitarie invece sono il Russia’s memorial e l’Ukraine’s center for civil liberties in onore «dell’impegno in difesa dei diritti umani e del diritto di criticare il potere, di difesa dei diritti dei cittadini e contro gli abusi di potere, per aver documentato i crimini di guerra». 

Quell’unica volta in cui il premio è stato rifiutato

Il politico vietnamita Lê Ðức Thọ aveva ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1973 insieme al segretario di stato americano Henry Kissinger. Ma Lê Ðức Thọ non ha mai ricevuto quel premio, è l’unico nella storia dei Nobel per la pace ad averlo rifiutato.

I due erano stati indicati come vincitori per aver negoziato l’accordo di pace del Vietnam. Ma Lê Ðức Thọ l’ha rifiutato denunciando il mancato rispetto degli accordi stipulati. La firma dell’armistizio era avvenuta il 27 gennaio del 1973 e in teoria metteva fine alla campagna militare degli Stati Uniti in Vietnam, ma la guerra nella realtà non si arrestò. Sarebbe poi terminata solo due anni dopo, nell’aprile 1975.

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