«Ogni volta che una persona trans va da un medico qualsiasi deve prepararsi al fatto che nel 90 per cento dei casi, ma forse anche nel 99 per cento, si troverà davanti un sanitario che non avrà idea di come sia fatto il suo corpo e di cosa ha bisogno». Lorenzo Barbaro è un medico specializzando, membro dal 2017 di Arcigay Palermo. È anche una persona trans, dunque quello che racconta fa parte anche della sua esperienza personale: «Nella migliore delle ipotesi incontri un medico che è aperto all’ascolto. E allora sei tu che devi spiegare la tua vita, il tuo percorso e il tuo corpo. Spesso sono i medici a chiederti informazioni sui farmaci, su possibili interazioni con le terapie ormonali. Talvolta non sanno come trattarti. Altre volte possono esserci episodi di discriminazione».

Quella che Barbaro delinea è una questione che ha a che fare con l’accesso ai servizi sanitari, che per le persone trans diventa pieno di ostacoli. O di situazioni al limite del paradossale. «È un sistema che non prevede i nostri corpi, i nostri bisogni di salute e specifici. Avendo ancora un utero vorrei essere inserito nei programmi di screening per il tumore alla cervice. Ma a me questa lettera di invito non arriverà mai, perché avendo ottenuto il cambio dei documenti per lo stato sono un uomo», racconta. Potenzialmente, però, raggiunti i 50 anni potrebbe ricevere quella per lo screening del tumore alla prostata.

«La mancanza di conoscenza dell’identità trans è sistemica, a partire dal sistema formativo», spiega Barbaro, che ricorda che nel suo percorso universitario in medicina ha sentito parlare di persone Lgbt solo durante lezioni che riguardavano le infezioni sessualmente trasmissibili. Una mancanza che poi si protrae anche negli step successivi della formazione medica.

«Nella mia esperienza di specializzando spesso ero l’unico a chiedere i pronomi a delle persone trans, mentre il resto del personale sanitario si basava esclusivamente sul nome anagrafico, invalidando l’identità di quella persona. Anche questo è un problema di accesso alle cure, perché se una persona sa che la sua identità verrà ignorata preferirà evitare di andare in ospedale», aggiunge. «La medicina dà per scontato tante cose perché è sempre il riflesso delle società».

Un’ottica transfemminista

Esistono delle pratiche che il personale sanitario può mettere in atto, a partire da piccoli accorgimenti, per adottare un approccio veramente inclusivo e consentire non solo alle persone trans, ma anche non binarie, migranti o tante altre soggettività di non sentirsi respinte dal sistema delle cure.

«Nella mia pratica clinica lavorare in un’ottica transfemminista vuol dire cercare di ampliare il mio sguardo verso tutte le possibili persone pazienti che si rivolgono a me come ostetrica. Significa fare in modo che sia io ad adattare la mia anamnesi, la mia cartella clinica, la mia pratica al loro bisogno anziché lasciare che il sistema resti rigido e siano loro a doversi adattare», spiega Chiara Mogliazza, ostetrica libera professionista esperta in salute pelvica.

«Nel momento in cui una persona si presenta alla prima visita, cerco di non dare per scontato alcuni aspetti. Non mi rivolgo direttamente al femminile, chiedo alla persona i pronomi che usa, la sua identità di genere, in quale orientamento sessuale si riconosce, che stili e modelli relazionali sta vivendo in questo momento».

Ci sono poi «tutta una serie di termini non scientificamente corretti, che vengono da tabù che ci portiamo dietro. Ad esempio preferisco dire rapporto penetrativo piuttosto che rapporto completo, che implica che senza penetrazione ci sia una sorta di incompletezza».

Formare

Insieme a Barbaro, Mogliazza terrà due giorni formazione rivolti a personale sanitario (e accreditati per l’ottenimento dei crediti formativi) durante le giornate della seconda edizione di Sirene Festival, la tre giorni dedicata ai diritti sessuali e riproduttivi organizzata dall’associazione Maghweb dal 23 al 25 maggio a Palermo allo European Palermo Youth Center.

La formazione ha il titolo ambizioso di “Rivoluzione Sanitaria”, e vuole scardinare le maglie rigide di un sistema troppo spesso escludente. «Lo scopo è andare il giorno dopo tutte e tutti nei nostri ambulatori e lavorare in ottica più transfemminista», dice l’ostetrica.

«Molto spesso lavorando sul territorio ci rendiamo conto che non c’è questa sensibilità. E il problema non riguarda solo le persone che fanno parte della comunità Lgbtqia+ ma anche coloro che sono cis e etero», spiega Emilia Esini di Maghweb.

L’obiettivo del Festival Sirene è avere questi momenti di formazione e confronto sui diritti sessuali e riproduttivi a Palermo, che «anche se è la quinta città più grande d’Italia, è comunque un luogo periferico. Non ci passi, devi venirci per forza. Quindi creare questa manifestazione ha anche l’obiettivo di portare qui delle professionalità che possano lasciare delle competenze sul territorio».

Secondo Mogliazza, «c’è una grande mancanza di formazione. Ma io credo che non riguardi solo le facoltà sanitarie, ma i cittadini e le cittadine in generale. Credo che ci sia bisogno di un’educazione sessuale affettiva nelle scuole anche nella prima infanzia, in modo che poi nel momento in cui si decide di voler intraprendere professioni sanitarie o mediche si ha già presente come è la società intorno a noi, quali sono i suoi bisogni».

© Riproduzione riservata