Il ministro Giuseppe Valditara ha firmato il 16 giugno 2025 una circolare (prot. 3392) che vieta l’uso degli smartphone anche nelle scuole secondarie di secondo grado, estendendo le restrizioni già applicate al primo ciclo. Il divieto vale per tutto l’orario scolastico, anche per fini didattici, salvo eccezioni: studenti con Piano educativo individualizzato (Pei) o Piano didattico personalizzato (Pdp), necessità personali motivate, o attività nei percorsi tecnologici di informatica e telecomunicazioni.

Il documento cita studi Ocse, Oms e Istituto superiore di sanità (Iss) per sostenere che l’uso eccessivo dello smartphone sia legato a difficoltà cognitive, calo del rendimento, disturbi del sonno e dipendenza. Le scuole dovranno aggiornare regolamenti e patti educativi, prevedendo sanzioni disciplinari per chi viola il divieto.

Eppure, mentre si vieta l’uso dei dispositivi, si afferma — non senza contraddizioni — che occorre anche «educare all’uso responsabile dello smartphone» e valorizzare strumenti digitali e intelligenza artificiale.

C’è poi un’amara contraddizione che attraversa la circolare. Se davvero — come afferma il ministro — lo smartphone è dannoso, perché è consentito proprio a chi è più fragile, ovvero a studenti con disabilità o Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa)? È un paradosso: ciò che è considerato tossico per tutti, diventa improvvisamente utile per chi ha più difficoltà. Esattamente ciò che chi si occupa di didattica inclusiva invita a non fare. Se non si cambiano gli obiettivi dell’apprendimento, ma solo i mezzi, uno strumento compensativo deve andar bene per tutti e tutte. Con questa circolare, invece, lo smartphone rischia di diventare un segno distintivo, e discriminante.

Non si tratta di uno strumento “buono” o “cattivo” in sé, ma di come lo si usa, in quale contesto, con quale mediazione.
Lo stesso vale per l’altra eccezione: l’uso ammesso negli indirizzi tecnici. In quei casi, il cellulare può essere utilizzato se funzionale alla didattica. Il rischio, però, è di ridurre il digitale a un addestramento meccanico, privandolo della sua dimensione comunicativa, creativa, relazionale. Come se l’unico uso legittimo fosse quello ingegneristico, e ogni altro — espressivo, collaborativo — fosse da censurare.

Una scelta miope

La scelta del ministero, al di là dell’effetto annuncio, solleva interrogativi pedagogici prima che politici.

Non è lo strumento che insegna: è l’uso consapevole e progettato. Nessuno apprende per la sola presenza di un device; ma la costruzione di competenze oggi non può prescindere da una familiarità critica e creativa con gli strumenti contemporanei. Vietarli in blocco, senza distinguere scopi e contesti, è una scelta miope.

Per molti studenti e studentesse, lo smartphone è ormai parte dell’ambiente cognitivo. Invece di negare questa realtà, andrebbe considerata un’opportunità educativa. La questione non è se usarlo, ma come farlo in modo formativo, rendendolo strumento di ricerca, pensiero critico e collaborazione.

Il ministro dice di voler limitare le distrazioni. Il rischio è reale: l’iperconnessione può produrre dipendenza e ridurre l’attenzione. Ma proibire non è educare. Educare significa guidare, trasformare. Non si insegna la cittadinanza digitale escludendo lo smartphone, ma integrandolo in percorsi responsabili.

Gli studi

Uno studio di Gerosa e Gui (Social Science Research, 2022) ha analizzato 1.672 studenti italiani: non emergono effetti negativi per chi ha ricevuto lo smartphone a 10-11 anni rispetto a chi lo ha ricevuto dopo. Solo gli studenti in contesti poveri di stimoli, e già esposti intensamente a media digitali, mostrano un peggioramento. Un dato colpevolmente ignorato.

Un articolo su The Economist (“Do bans on smartphones in schools improve mental health?” - febbraio 2025) rileva che non esistono prove certe del legame tra uso dello smartphone e disagio mentale. «Stabilire un nesso causale è difficile – si legge – perché i dispositivi comprendono molteplici funzioni». Anche la ricerca di Victoria Goodyear (The Lancet, 2025) conferma che non vi è differenza significativa nel benessere tra studenti in scuole con politiche restrittive e permissive.

Il dibattito sugli smartphone mostra una tendenza a semplificare: si colpevolizza la tecnologia, invece di riflettere su come viene integrata nella didattica. Ma lo smartphone può diventare strumento di partecipazione, documentazione, osservazione del mondo — se il docente è formato, la progettazione solida, l’ambiente scolastico pronto al cambiamento.

Complessità ignorata

È indubbio che ci sia oggi una fragilità giovanile diffusa. Ma chi dovrebbe occuparsene non sempre è all’altezza. E questa inadeguatezza alimenta altro disagio.
Nel discorso ministeriale manca ogni riferimento alla formazione dei docenti per le competenze relazionali, alla riprogettazione degli ambienti di apprendimento, all’investimento sulle professionalità. Il documento Scuola 4.0, che accompagnava i fondi Pnrr, parlava di ecosistemi di apprendimento. Ma spesso è stato ridotto alla distribuzione di visori e touch screen. Eppure, se ben usati, gli strumenti digitali favoriscono una conoscenza costruita “facendo”, attraverso la collaborazione e la ricerca. Possono valorizzare stili di apprendimento e soggettività, come mostra il lavoro di Roberto Franchini (Università Cattolica di Brescia).

Il divieto generalizzato è una semplificazione normativa che ignora la complessità educativa. Una misura difensiva che abdica alla responsabilità di preparare cittadini del presente.
Serve una visione, non un regolamento. Ambienti dove le tecnologie siano leva per curiosità, autonomia, pensiero critico. Una scuola che accompagni i ragazzi nel mondo che vivono, senza paura, ma con competenze e alleanze educative. Solo così si costruisce una scuola capace di futuro.

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