È un po' come il “maschile sovraesteso”, quella regola grammaticale della lingua italiana per cui, un gruppo di genere misto si definisce usando un sostantivo nella forma maschile plurale; quindi, dicendo “cittadini” sappiamo tutti che stiamo parlando anche di donne, cittadine. Una convenzione che appare sempre meno adeguata a esprimere esigenze e sensibilità che cambiano, o vorremmo cambiassero, in direzione di un’auspicata, sebbene ancora lontanissima, chiusura del gender gap e dell’inclusione di soggettività diverse.

Per coerenza della sua applicazione in ambito sportivo, succede che atleti e atlete vengano chiamati "atleti" ma accade anche, talvolta per lapsus, talvolta per generalizzazione, che vengano chiamati "giocatori" (in conseguenza all’onnipresente gioco del calcio). Ciò per via di un’aggravante ovvero una scorciatoia del pensiero che si aggancia alle parole conosciute. Così, se l’immaginario collettivo è saturo di calcio, sono i suoi sostantivi a rappresentare anche il mondo dello sport, tutto. Ne deriva un circolo vizioso per cui solo ciò che è nominato, è visibile, importante (?) e viceversa. Traducendo tutto in una proporzione, il plurale sovraesteso sta all'umanità, come il calcio sta allo sport.

Il lessico

Oggi, però, questa generalizzazione sa di una distorsione dai contorni fortemente discriminatori: l’agonismo di successo, anche in Italia, è più che mai donna; il calcio è meno che mai sinonimo di sport ed è, comunque, “femminile” come non lo è mai stato prima. Il dibattito è acceso: linguisti, sociologi, attivisti per i diritti di genere e tutti coloro che, anche provocatoriamente, propongono una rivoluzione culturale vorrebbero rovesciare l'uso del maschile in un femminile plurale inclusivo, un’autentica battaglia linguistica a cui la forza e i successi internazionali delle atlete azzurre offrono un grande assist.

In un contesto in cui le atlete italiane spesso raggiungono e superano i risultati dei colleghi maschi sul palcoscenico internazionale, la sfida lanciata rispetto all’utilizzo di termini come "le giocatrici" o "le atlete" anche in senso generico, non appare più “solo” una conquista per l’equità grammaticale. Certo resta un’utopia dato che nemmeno la narrazione delle partite femminili si adegua all’uso corretto dei termini tecnici declinati per genere: spesso non si cerca il corrispettivo femminile de "il centrocampista", "il difensore", “la marcatura a uomo” sebbene la lingua italiana lo permetterebbe facilmente ("la centrocampista", "la difensora", “la marcatura a donna”). Un’utopia che però è un forte argomento politico per spingere verso un modo di esprimersi corretto e giusto: un’evoluzione linguistica che dia dignità al contributo e alla grandezza delle donne nello sport. Perché, come appunto insegna bene il femminismo: ciò che non viene nominato non è.

I risultati

E il momento per lanciare il femminile sovraesteso nello sport italiano sarebbe proprio arrivato. Sta avvenendo qualcosa di significativo. I successi delle atlete azzurre non sono solo individuali (a Parigi 2024 le donne hanno vinto molti più ori degli uomini: 7-3) ma riguardano anche le specialità in team delle discipline individuali, vedi il doppio del tennis Paolini-Errani o le (ex) “Farfalle” della ginnastica ritmica, così come nei classici giochi di squadra, di cui il volley è l’esempio più eclatante. La pallavolo femminile italiana, oro olimpico, domina la scena internazionale da anni. Il campionato è vivace, il migliore al mondo; il numero delle tesserate supera quello dei tesserati; è uno sport radicato nel tessuto scolastico. Ha dunque delle caratteristiche peculiari che in parte giustificano i risultati ma non nel confronto con il maschile che gode di altri e maggiori investimenti, strutture, opportunità, a partire dalle categorie giovanili in su.

È proprio di questi giorni la polemica del Palapanini, palasport negato alla squadra femminile Volley Modena, neopromossa in A2. La squadra maschile che milita in serie A e le sue giovanili non possono lasciare nessuno spazio alle donne.

Il brillante percorso della Nazionale femminile di basket ai Campionati europei conferma lo schema che vuole le donne ai margini. Le azzurre che hanno riacceso l’entusiasmo del pubblico italiano per la pallacanestro femminile, sono atlete che nelle giovanili giocavano con i ragazzi (perché i club difficilmente hanno abbastanza risorse per sostenere due squadre e partecipare a campionati doppi); che nelle categoria intermedie si allenavano in orari serali (alla fine degli allenamenti delle categorie maschili); che si pagavano le trasferte (talvolta anche le divise); sono atlete che, sebbene arrivate al massimo livello possibile, di certezze non ne hanno mai, né dal punto di vista contrattuale né da quello della solidità del club.

Il gap

La Virtus Bologna l’anno scorso ha chiuso, nel silenzio generale, l’attività femminile per ristrettezze economiche e mancanza di un adeguato impianto per gli allenamenti e le partite. Per non parlare delle calciatrici della Nazionale che, fino a poche stagioni fa, si allenavano a notte fonda con i fari delle auto a illuminare il campo (parole dell’ex ct Milena Bertolini). «Se la partecipazione non viene favorita e la base è ridotta, le possibilità di ricambio scarseggiano» dice Tania di Mario, campionessa olimpica ad Atene di pallanuoto, ora presidente-giocatrice dell’Orizzonte Catania, spiegando perché è difficile dare continuità all’altissimo livello del Setterosa.

Fatti e casi da citare per dimostrare le scarse opportunità dello sport femminile, di squadra in particolare, a fronte di grandi risultati ottenuti, ce ne sarebbero moltissimi ma la situazione è già piuttosto chiara; lo è a partire dalla mancanza del professionismo, che resta una prerogativa di pochissime nonostante la riforma del lavoro sportivo entrata in vigore il 1° luglio 2023; lo è per la assenza pressoché totale dei gruppi sportivi militari dai giochi di squadra (escamotage dei diritti per gli sport individuali).

Tanto per guardare a tutto il panorama degli sport collettivi, il rugby ha investito nel settore femminile e il livello sta crescendo. Nella pallamano e nell’hockey su prato e su ghiaccio non si sta ancora muovendo nulla.

«Siamo a un punto di svolta. Dopo decenni di fatica e di silenzio si raccolgono i frutti. È come se lo sport femminile avesse finalmente preso consapevolezza dei propri mezzi. Ritengo che la visibilità di chi ce l’ha fatta, anche negli sport individuali, sia stata d’ispirazione per tutte. Le campionesse fanno da role model e aiutano la determinazione delle giovani, tengono viva la volontà di arrivare, nonostante le ìmpari opportunità» dice Stefania Passaro, leggenda del basket italiano con 10 scudetti, 6 Coppe Campioni e 178 partite in azzurro.

In effetti, talvolta, le discipline individuali brillano grazie a dei talenti, sebbene dietro loro non vi sia nulla. Gli sport di squadra invece dipendono particolarmente da una scuola con cui dare metodo, spazio e tempo a tutto un movimento che deve trovare motivazioni e stimoli con continuità. Perciò dare visibilità alle donne vincenti, far sapere che esistono, è forse l’unico segreto che spiega il successo dello sport agonistico femminile, nonostante la persistente carenza di risorse. Per questo, il tempo del femminile sovraesteso sarebbe arrivato. Così come le donne si sono abituate a essere comprese nel maschile universale, sarebbe un passo significativo se anche gli uomini imparassero a riconoscersi e a farsi comprendere nel femminile: un'evoluzione naturale. Chi lo propone ai dirigenti dello sport italiano, dove “dirigenti” non è da intendersi come un plurare sovraesteso ma proprio monogenere maschile?

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