La fortezza Europa si sente sotto assedio. Totalmente disinteressata a numeri e fact checking, è convinta di essere ormai cinta da orde di migranti che starebbero per invaderla da ogni angolo del mondo. La prova più evidente sono i muri eretti negli ultimi 30 anni in funzione anti-profughi da tantissimi stati della Ue, taluni addirittura in area Schengen, incuranti di trattati e normative che li vieterebbero tassativamente: mille chilometri di muri, muretti, recinzioni, fili spinati e quant’altro disseminati in ogni dove e controllati da dispiegamenti di uomini, armi e droni. Il tutto con il sostegno, informato o meno, dei contribuenti. L’ultimo, in ordine di tempo, è la barriera eretta tra Polonia e Bielorussia per fermare gli arrivi di afghani.

Una grande muraglia che si snoda per tutta l’Europa, sei volte più lunga di Berlino di cui, tra qualche mese, celebreremo pomposamente il 32° anniversario dalla caduta.

L’accerchiamento non c’è

L’accerchiamento, in realtà, non c’è. Anzi, non c’è mai stato. E proprio ora che si tenta l’ulteriore arrocco nel terrore di arrivi dall’Afghanistan e si pensa a soluzioni che prevedano finanziamenti a Pakistan, Iran o Turchia senza garanzie sul rispetto dei diritti umani, bisognerebbe dirlo chiaramente. Gli ingressi irregolari tanto temuti attraverso sbarchi o passaggi a piedi sulla rotta balcanica, non hanno mai registrato picchi particolarmente elevati nell’Unione europea, neanche quando nel 2015, in piena crisi siriana, hanno toccato il record di un milione circa (180mila in Italia): su 520 milioni di abitanti della Ue, rappresentavano lo 0,2 per cento, non esattamente un’emergenza.

Negli ultimi dieci anni poi il trend, come dimostrano le statistiche di Frontex, la polizia europea di confine, è in caduta libera (se si eccettua un lievissimo rialzo degli ultimi mesi).

Chi sopporta il peso delle migrazioni di massa, in realtà, sono i paesi limitrofi o appartenenti alle aree da cui maggiormente si fugge. In particolare l’Africa.

Spostamenti forzati

È l’Africa a ospitare un numero impressionante di profughi o migranti. Secondo uno studio recente dell’Africa Center for Strategic Studies (Acfss) degli 82,5 milioni di migranti forzati che sono stati costretti a lasciare le proprie case nel 2020, ben 32 sono africani rimasti in Africa. La maggior parte sono profughi interni. Gente che, sorpresa da eventi avversi, prova a trovare rifugio in zone apparentemente più tranquille del proprio paese. Il numero è in costante ascesa: solo nel 2019 erano 29 milioni. Gli altri vagano in cerca di riparo nei paesi limitrofi spesso già gravati da crisi annose. L’Africa, assieme ad alcune aree di medio oriente, Asia minore e America centro-meridionale, è il continente che produce il maggior numero di spostamenti forzati. Secondo un report del Norwegian refugee council dei dieci paesi che hanno contribuito per l’88 per cento alle fughe nel mondo, ben otto sono africani (Congo, Burkina Faso, Etiopia, Camerun, Burundi, Centrafrica, Nigeria e Mali).

Ma sebbene le spinte centrifughe siano in costante aumento in Africa, sono pochissimi quelli che da quei contesti immaginano un tragitto verso l’Europa. Intanto perché ci vogliono tanti soldi (per un viaggio gestito dai trafficanti si calcola una somma da un minimo di 4mila a un massimo di 15mila dollari), poi perché chi fugge per cause di forza maggiore, non si allontana nella speranza di tornare presto a casa e infine perché il migrante, specie con famiglia, mira a trovare rifugio in luoghi in cui le possibilità di integrazione, siano maggiori.

Il Congo

Tutto ciò innesca meccanismi complessi che andrebbero studiati e non semplificati e riassunti nel mantra “vengono tutti da noi”. Prendiamo il Congo. Il grande paese centro africano, tra i più ricchi al mondo per risorse interne – ma agli ultimi posti nelle classifiche di sviluppo, stabilità e reddito pro capite – è forse l’esempio più paradossale. Da decenni in permanente crisi stretto tra precarietà politica, scontri, Ebola e veri e propri conflitti nelle aree orientali che hanno fatto decine di migliaia di vittime e prodotto un numero spaventoso di sfollati interni ed esterni (6mila al giorno), si trova, allo stesso tempo, a essere un paese di accoglienza per sud-sudanesi, centrafricani, ruandesi e burundesi che, in alcuni periodi, vivono situazioni talmente terrificanti da scegliere di sconfinare in zone che considerano apparentemente appena più tranquille.

L’Etiopia

O l’Etiopia. Fino a un anno fa, era un paese considerato modello di stabilità politica, rispetto dei diritti e democrazia (il primo ministro Abiy è stato insignito del Nobel per la pace nel 2019). Dal novembre scorso è precipitato in una crisi drammatica con il conflitto nel Tigray che ha fatto, nel giro di qualche mese, due milioni di profughi interni ed esterni. Questi, vanno ad aggiungersi agli 800mila migranti forzati provenienti da altri stati (Eritrea, Sud Sudan, Sudan, Yemen) che, fino alla fine del 2020, vedevano nell’Etiopia un paese di approdo se non ideale, accettabile. Le migrazioni in alcune aree del mondo, per quanto sia banale dirlo, le decidono le emergenze umanitarie, non le scelte deliberate dei singoli. Da noi, in sostanza, ne arrivano pochissimi. Intanto perché quei pochi che cercano il viaggio verso l’Europa, vengono bloccati in Libia e in Turchia, a cui abbiamo affidato, esternalizzandola, la gestione dei migranti, pagandola profumatamente. E poi perché quelli che riescono a uscirne indenni dopo aver subito violenze e torture devono fare i conti con il Mediterraneo (si calcola per difetto che i cadaveri nei fondali del canale di Sicilia siano 33mila dal 2000 a oggi, ndr) o con le polizie di frontiera balcanica che li respingono lontano dai confini.

Come scrive Nigrizia, c’è bisogno di decolonizzare la narrazione delle migrazioni. C’è bisogno di uscire definitivamente dall’idea che esista permanentemente un esercito di africani poco civilizzati, pronto a sbarcare sui nostri lidi, che vede nel nostro modello politico-economico l’unica possibile salvezza.

«Decolonizzare la storia – ha dichiarato a The Humanitartian Joseph Teye, direttore del Center for Migration Studies presso l’Università del Ghana – significa affidare la ricerca e la narrazione a studiosi del sud del mondo». Sarebbe chiaro a tutti, ad esempio, che l’85 per cento dei migranti forzati è ospitato nel cosiddetto emisfero meridionale. Nel racconto delle migrazioni, infine, manca un tassello determinante. In Africa, sta crescendo anche il fenomeno di migrazioni economiche tra gli stati. Sono sempre di più gli africani a spostarsi da un paese all’altro per lavoro, studio, insomma per scelta libera, non dettata da emergenze. Il popolo “on the move” fatto di giovani e giovanissimi, non pensa minimamente all’Europa o all’occidente per le proprie destinazioni finali. Questa ennesima prova di migrazione intra-africana, dimostra quanto siamo lontani dalla comprensione del fenomeno.

Un futuro di sviluppo

E mentre noi fatichiamo a capire, le cose, in Africa e da noi, cambiano alla velocità della luce. Nell’ottobre scorso, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e l’Unione africana (Ua) hanno pubblicato l’Africa Migration Report da cui emerge uno scenario molto interessante. Oltre a demitizzare la retorica del fenomeno (il sottotitolo è “Challenging the Narrative”), il rapporto dimostra che entro il 2050 l’Africa farà registrare un importante sviluppo economico – già in atto al di là di conflitti, disastri e dittature, anche in alcuni dei paesi più tribolati – dovuto proprio alle migrazioni interne.

A contribuire a tale panorama geopolitico-economico, sono le strategie accompagnate ad avanzamenti tecnologici che permetteranno di gestire gli spostamenti così come il Free movement protocol dell’Ua, lo Schengen d’Africa, che sta fondando una mega area libera di movimenti nel continente.

Secondo il report, inoltre, l’occidente e il suo declino, non saranno più attrattivi come un tempo e saremo noi, i nostri figli e i nipoti a guardare all’Africa come meta migratoria anche prima del 2050. Chissà se allora si svilupperà dall’altra parte del Mediterraneo il concetto respingente “vengono tutti da noi” o se gli africani sapranno accogliere come occasione di sviluppo, arricchimento, avanzamento, i flussi da nord a sud.

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