C’è la tragedia e c’è la farsa. La tragedia, che il governatore della Toscana Eugenio Giani ignora ostinatamente, è che dal 2012 al 2018 l’industria conciaria di Santa Croce sull’Arno (Pisa), 500 aziende per 6.000 occupati e 2,5 miliardi di fatturato, stando all’inchiesta della direzione antimafia di Firenze ha prodotto centinaia di migliaia di tonnellate di fanghi tossici illecitamente sotterrati in giro per la regione. La farsa è andata in scena ieri al consiglio regionale della Toscana. Al culmine di sei ore di tesa discussione sullo scandalo che scuote il sistema di potere del Pd, Giani racconta che tempo fa visitò nella zona del cuoio una conceria appena acquistata da un americano che aveva un grande allevamento di coccodrilli. Perché aveva scelto di portare le pelli da conciare in Toscana? Perché, racconta il governatore, negli Stati Uniti il costo di smaltimento dei rifiuti era altissimo e perciò gli conveniva conciare a San Miniato. Appena Giani chiosa compiaciuto che questo dimostra la competitività della “economia circolare” dei conciari toscani un consigliere del Pd, Giacomo Bugliani, sviene. Seduta interrotta.

È stato solo il più spettacolare dei numerosi autogol di Giani, non indagato ma la cui posizione appare politicamente compromessa. Tra le contraddizioni del governatore la più significativa riguarda la comprensione del problema. Giani parla solo dell’infiltrazione delle mafie nell’economia toscana e ammorba l’assemblea per venti minuti, partendo dalla strage mafiosa di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993) per arrivare a un protocollo tra regione e prefetture toscane che presto asfalterà la criminalità organizzata. Ma la vicenda che l’inchiesta sta portando alla luce è di tutt’altra natura. Il presidente dell’associazione conciatori Alessandro Francioni, il direttore della stessa associazione Aldo Gliozzi e il suo predecessore Piero Maccanti sono agli arresti domiciliari come presunti capi di un’associazione a delinquere (della quale è accusata di far parte anche la sindaca di Santa Croce Giulia Deidda) finalizzata a «molteplici traffici organizzati di rifiuti e delitti di inquinamento ambientale». Come loro complice è indicato l’imprenditore calabrese Francesco Lerose, «a disposizione della cosca Grande Aracri», ma il suo ruolo è quello dell’esecutore materiale che svolgerebbe il «lavoro sporco» su incarico degli industriali del cuoio. Giani finge di non capire che non è questione di ’ndrangheta: se al posto di Lerose ci fosse un imprenditore toscano, la gravità della vicenda resterebbe intatta.

La seconda contraddizione di Giani riguarda il suo capo di gabinetto Ledo Gori, che aveva già svolto lo stesso ruolo nei dieci anni precedenti con il governatore Enrico Rossi. Giani ha annunciato che la regione si dichiara parte offesa nel procedimento in corso e che ha già licenziato Gori, indagato per corruzione. Il punto è che Gori è accusato di aver fatto il gioco dei conciari in cambio della promessa di adoperarsi presso Giani per convincerlo a confermarlo come capo di gabinetto, cosa che il governatore neoeletto ha fatto il giorno stesso dell’insediamento (8 ottobre 2020). L’accusa è un po’ illogica: Gori è uomo così potente, stimato e ricco di relazioni che appare inverosimile vedere le sue eventuali ambizioni appese alla benevolenza dei conciari. E comunque Giani dice che lo ha confermato solo per avvalersi della sua indubbia esperienza, quindi è l’uomo che può scagionare Gori. Perché invece lo licenzia? Alla perentoria richiesta della consigliera leghista Elisa Montemaggi se ha ricevuto pressioni per Gori dai conciari («Presidente, basta un sì o un no»), Giani non ha voluto rispondere. E del resto nelle carte dell’inchiesta risulta una riunione di Giani con i presunti capi dell’associazione a delinquere, il 20 luglio 2020, in cui si sarebbe proprio parlato di Gori.

La terza contraddizione di Giani riguarda il consigliere regionale Andrea Pieroni, luogotentnte di Enrico Letta a Pisa, indagato per corruzione per aver acrobaticamente presentato il 26 maggio 2020 l’emendamento, scritto dall’avvocato dei conciari Alberto Benedetti (indagato anche lui per associazione a delinquere), che sostanzialmente avrebbe consentito al consorzio di smaltimento Aquarno di aggirare regole e controlli. Il video di quella approvazione (Giani era presidente del consiglio regionale) è stato acquisito dai magistrati. Pieroni, intercettato, dice ai suoi danti causa come Giani fosse sostanzialmente suo partner nel gioco di prestigio. Ieri il governatore ha detto di «non riconoscersi nel contenuto delle presunte intercettazioni di Pieroni» e che comunque adesso la giunta proporrà l’abrogazione dell’emendamento con la curiosa motivazione che tanto non ha avuto effetto. Infatti è stato impugnato davanti alla Corte costituzionale dall’allora ministro dell’Ambiente Sergio Costa e gli uffici regionali si sono rifiutati di applicarlo perché in contrasto con la legge nazionale.

Anche in questo caso alla domanda di Montemaggi («Conosceva il contenuto di quell’emendamento?») Giani non ha risposto. Ma l’ampia relazione fatta ieri dall’assessore all’Ambiente Monia Monni ha descritto anni di conflitti tra gli uffici regionali e i conciari che gli industriali cercavano di risolvere con sponde politiche. Dunque Giani il 26 maggio 2020 non sapeva che quell’emendamento, presentato con destrezza da Pieroni per aggirare i pareri degli uffici, impattava così pesantemente su quel conflitto tra uffici regionali e industriali che oggi rivendica con orgoglio? Sono ancora molte le domande a cui dovrà dare risposta l’inchiesta giudiziaria, visto che i protagonisti continuano a far finta di non capire.

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