La scadenza del bando per la vendita dell’ex Ilva, fissata per oggi, 26 settembre, si avvicina come un ultimatum su un colosso siderurgico che incarna le contraddizioni di un’Italia industriale in cerca di riscatto. L’impianto di Taranto, il più grande d’Europa, con 8mila lavoratori diretti e un indotto che sostiene migliaia di famiglie, rischia di restare senza acquirenti.

Il consorzio azero composto da Baku Steel Company e Azerbaijan Investment Company si è ritirato, seguito dall’indiana Jindal Steel International, che ha spostato il mirino sulla divisione siderurgica di Thyssenkrupp in Germania.

Persino il fondo americano Bedrock Industries, ancora in bilico, potrebbe tirarsi indietro nelle prossime ore. L’unica proposta concreta sul tavolo è quella di Flacks Group, altro fondo Usa, ma con un’offerta economica “al ribasso” che lascia freddi i commissari straordinari e il governo. Voci di corridoio parlano di un possibile offerente italiano, ma senza riscontri ufficiali resta un’ipotesi evanescente.

Un’asta a rischio fallimento

Il bando, aggiornato ad agosto dal ministero delle Imprese e del Made in Italy guidato da Adolfo Urso, riguarda l’intero complesso aziendale: Ilva in Amministrazione Straordinaria, Acciaierie d’Italia e società collegate come Taranto Energia, per un valore stimato di 1,5 miliardi di euro, inclusi magazzini e asset.

Ma chi investirebbe in un gigante che ha accumulato due miliardi di perdite in meno di due anni, gravato da vincoli ambientali e un sequestro giudiziario con facoltà d’uso che si protrae dal 2012?

Il bando impone la decarbonizzazione obbligatoria: tre forni elettrici al posto di quelli a carbone per fare di Taranto «il sito siderurgico più sostenibile d’Europa». Un obiettivo ambizioso, ma che scoraggia gli investitori: i costi sono ingenti, e le incertezze legali – con 18 decreti “salva-Ilva” in oltre un decennio – pesano come macigni.

In alternativa, restano le offerte per singoli asset, come quelle di Marcegaglia e Sideralba dalla prima gara, ma sono un piano B che non entusiasma.

La città in attesa

Il sindaco di Taranto, Pietro Bitetti, dopo le dimissioni lampo e un ritorno al tavolo ministeriale, boccia l’attuale piano governativo: «Serve un decreto speciale per Taranto, con la chiusura dell’area a caldo e una transizione condivisa verso i forni elettrici». La Conferenza dei Servizi, cruciale per la decarbonizzazione, è in stallo per la mancata adesione del Comune, e un accordo parziale sembra l’unica via.

Associazioni come Peacelink e cittadini spingono per la chiusura totale: «Basta col ricatto salute-lavoro». Eppure, l’ipotesi di una nazionalizzazione, paventata da alcuni esperti, resta sullo sfondo: «Senza regia pubblica, l’Ilva affonda», avvertono. Ma un ulteriore miliardo di fondi pubblici, con i rischi fiscali che comporta, spaventa il Mef.

Nel frattempo Taranto continua a vivere sospesa. Sarà Flacks Group l’unico candidato di un’asta deserta? O spunterà un improbabile cavaliere italiano? L’impianto, con i forni fermi e l’Afo 1 in attesa di riavvio, è il simbolo di un paradosso: un’industria che dovrebbe essere verde, ma che rischia di essere solo un miraggio.

Il governo ha 48 ore per evitare una «sentenza scritta», come avverte Urso. Per Taranto, il tempo delle promesse è finito: serve una soluzione, o il prezzo lo pagheranno ancora i suoi cittadini, stretti tra il clangore assente delle acciaierie e il peso di un futuro incerto.

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