«La verità è che io non sono cambiato. Le idee che avevo vent’anni fa sono le stesse. Identica è la voglia di fare, di essere vicino ai bisogni della gente. Di lottare perché le cose storte del mondo possano cambiare. Lo faccio con altri modi e strumenti diversi, certamente. Ma la strada è la stessa». Vitaliano Della Sala, per i fedeli preceduto dal “don”, oggi ha 58 anni, vent’anni fa nelle strade di Genova, tra i lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo, la Diaz e Bolzaneto, era il “prete no global”. Amico di Luca Casarini e Ciccio Caruso, i leader più noti del movimento. Sempre presente alle loro conferenze stampa, attivissimo in piazza. Jeans e clergyman, ma con sciarpa al collo con i colori arcobaleno della pace, la sua foto fa il giro del mondo fino a diventare una icona.

Odiato dalle destre, osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche, don Vitaliano ha alle spalle una vita di contrasti e dissensi, scelte dure e sempre controcorrente. Una vita difficile. Ora è parroco di Capocastello, frazione di Mercogliano, piccolo borgo in provincia di Avellino, e numero due della Caritas diocesana. Ci conosciamo da secoli, a Genova eravamo insieme in quei giorni di speranze, illusioni e feroce repressione. Posso prenderlo un po’ in giro. «Ti hanno recuperato…». La risposta è una bella risata. «Diciamo che ci siamo recuperati insieme. Io e la Chiesa». Quella ai tempi del G8 di Genova era diversa. «Il periodo di Giovanni Paolo II non fu dei più felici per i sacerdoti e i cattolici che la pensavano in modo diverso. Io, don Andrea Gallo, le migliaia di cattolici che vennero alle manifestazioni del controvertice, non eravamo ben visti. Ci consideravano dei pericolosi estremisti. Ma in mente noi avevamo un’altra Chiesa. Un altro mondo è possibile, era lo slogan di quei giorni, noi aggiungevamo che un’altra Chiesa è possibile».

Il mondo rispetto a vent’anni fa non è cambiato, o forse lo ha fatto cambiando in peggio, la Chiesa sì. «Quando andai al gay pride a Roma (Il Giornale mise in prima una foto del don con due trans brasiliani, ndr), successe il finimondo. Tanti uomini di destra all’improvviso si riscoprirono cattolici e apostolici romani doc per attaccarmi. Chiedevano pene e sanzioni severissime. Un mio vecchio professore di teologia per tranquillizzarmi mi disse parole che ancora oggi mi fanno riflettere: «Ora stai soffrendo, ma un giorno quella tua presenza servirà a dimostrare che la Chiesa è accogliente». Ho sofferto molto, per anni non mi è stata affidata una parrocchia, ma sia chiaro: non ho dovuto abiurare. Sono nella Chiesa, ma con le mie idee».

Un prete inquieto

Riavvolgiamo il nastro della vita. Vent’anni prima. Genova. Don Vitaliano è un prete inquieto. Ribelle da sempre. Fin dai tempi del seminario, dal quale fugge non sopportando regole e imposizioni. La Chiesa di allora, le sue gerarchie e le assurde chiusure, gli appariva estranea e lontana dai problemi del mondo. Studia e si laurea alla Pontificia Università teologica dell’Istituto meridionale. Ovviamente cum laude. È prete, finalmente, e viaggia. Palestina, con Peace now, nei Balcani durante la guerra con i Beati costruttori di Pace, in Iraq. Con questo “bagaglio” don Vitaliano arriva a Genova.

«Ero già amico di Luca Casarini e Ciccio Caruso, due con in testa un miliardo di idee. Ad ispirarmi, però, erano le parole di don Tonino Bello sulla convivialità delle differenze. E allora mettemmo insieme ragazzi dei centri sociali, anarchici, comunisti senza partito, e cattolici convinti. Eravamo diversi ma non divisi. La diversità ci arricchiva, tutti sognavamo un altro mondo possibile. Tutti facevamo la stessa, radicale critica alla globalizzazione. In testa avevamo Seattle, le critiche di economisti e filosofi al modello economico mondiale che si stava imponendo. Il nostro movimento fu forse l’ultimo che mise insieme padri e figli, vecchi e giovani. Se le istituzioni ci avessero ascoltato, avessero colto il segno e la ricchezza delle nostre parole, la forze di quella unità che metteva insieme ideologie e generazioni diverse, forse le cose sarebbero andate diversamente invece…».

Il racconto del prete si ferma. Era in via Tolemaide. «In testa al corteo c’erano preti come don Gallo, parlamentari, sindacalisti, persone lontane da ogni violenza. Eppure ci attaccarono. Il potere, in quel momento personificato da Berlusconi e Fini, decise di schiacciarci. Vinsero i blindati, i manganelli, le macellerie messicane».

Cosa resta delle battaglie

Nei giorni di Genova don Vitaliano dormiva in una stanzetta offerta da don Andrea Gallo, il prete partigiano di Genova. «Un esempio di vita», ricorda. Nella testa ha ancora impresse le scene della scuola Diaz. «Arrivai di notte con Francesco Caruso. I ragazzi portati in barella con le teste spaccate, le ragazze ferite e in lacrime, scene che non dimenticherò mai». E oggi, che dire? «Dico che ci abbiamo provato. È andata male ma non è finita. Dico, usando le belle parole di Eduardo Galeano, la storia continua anche dopo di noi e quando lei dice addio ci sta dicendo arrivederci».

Certo, ma continua con chi? Il don ha una risposta. «Con i giovanissimi che si occupano di ambiente e di riscaldamento globale. I ragazzi non sono come vogliono dipingerli, abbruttiti dal consumo, dai social e dalla pessima tv, ci sono giovanissimi che sono preoccupati del futuro dell’umanità. Questa è la speranza. Certo, intorno c’è un mondo di rancore e solitudine. Penso a quella dei migranti, ai lavoratori delle tante, troppe fabbriche che in questo periodo chiudono. Agli operai licenziati con una mail. Ecco, se dovessi dire cosa rimane di quei nostri giorni genovesi e delle battaglie di allora, direi molto poco. La frammentazione sociale dilaga».

«Avevamo ragione noi»

Ma don Vitaliano non vive la sindrome del reduce triste e sconfitto. «Oggi, noi protagonisti di quel movimento, facciamo altro. Francesco Caruso insegna all’università e si batte contro il pensiero unico, Luca Casarini si occupa di mettere in mare navi per salvare i migranti. Io sono il vicedirettore della Caritas di Avellino. Mi occupo della mensa dei poveri, del dormitorio, del banco alimentare. E lo faccio con le idee di allora, con la stessa voglia di combattere le ingiustizie. Sono in una terra, l’Irpinia, devastata dagli abbandoni, dalle false promesse di sviluppo, con tassi di inquinamento da far paura. E allora mi batto con le associazioni ambientaliste. Qui da noi nei centri di ascolto senti storie di emarginazione terribili. Un altissimo tasso di alcolismo e ludopatia tra i giovanissimi. Una percentuale allarmante di suicidi tra i minorenni. Sono dati che parlano di una società che non va, di un Sud illuso e dimenticato. Dati che non mi gettano nello sconforto, perché nutro ancora la speranza. Che, come diceva Sant’Agostino, ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle».

Giusto, ma, chiedo a don Vitaliano, la Chiesa è cambiata? «Certo, con Papa Francesco tantissimo. Nei gesti del Papa che va a Lampedusa e abbraccia la tragedia dei migranti, che incontra gli indios dell’Amazzonia e denuncia il pericolo di nuove colonizzazioni. Nelle parole scritte in Laudate si sulla cura della nostra casa comune, la Terra, e sull’importanza di un’ecologia integrale, in cui la preoccupazione per la natura, l’equità verso i poveri, l’impegno nella società, si intrecciano e sono inseparabili. E poi fratelli tutti. A ben vedere in queste parole del Papa ritrovo la tensione di vent’anni fa, insieme a buona parte delle nostre analisi sugli sviluppi e sugli effetti nefasti di una globalizzazione governata dall’economia e senza rispetto per la natura e per i bisogni dell’uomo. Ogni tanto il mio vescovo, monsignor Arturo Aiello, che mi ha voluto e mi sostiene nella mia attività alla Caritas, mi dice che forse avevamo ragione noi, quelli del G8 di Genova. E la cosa mi conforta assai».

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