Genova G8, vent’anni fa. Un anniversario non è mai, solamente, l’occasione per il ricordo dell’evento, ma la sua estensione nel presente. I giorni di luglio 2001 ritornano, per connessioni esplicite, lungo traiettorie tematiche. Un esempio su tutti: i video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere rimandano a quelli commessi nella scuola Diaz, alle torture nella caserma di Bolzaneto. Tema comune: la violenza in divisa.

Non è un argomento nuovo, purtroppo. Le immagini – nella loro riproducibilità – sono simulacro di un concetto più ampio e di una genealogia vasta di collegamenti: le storie di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva; la repressione nel sangue delle rivolte scoppiate nelle carceri, da Modena a Foggia; le condanne inferte all’Italia prima che venisse approvata la legge sul reato di tortura. Sgombriamo il campo da un falso mito: Genova 2001 non finisce il 21 luglio, ma continua a produrre significati.

vignetta g8

La memoria del G8

È dirimente, quindi, chiedersi come si è ricordato: non solamente che cosa, ma attraverso quali forme e in che modo. Primo tema: il soggetto. Genova è stata raccontata dai media per chi l’ha vissuta, per chi era a casa, per chi non era manco nato nel 2001. Voci di osservatori, non di testimoni.

È proprio SupportoLegale, gruppo che ha raccolto fondi per i processi ai manifestanti, a cogliere che questo modello narrativo è stato incentrato sul tema della repressione. Aggiungerei che, come in ogni guerra, le parti in conflitto dovevano essere almeno due: la polizia e i black bloc. Ostaggio di tale schema sono cadute le voci di tante e tanti. Non delle due parti, sia chiaro, ma di questo tipo di racconto. Talmente pervasivo e capillare, il messaggio è giunto nell’intimo, talvolta convincendo che era andata proprio così, che il problema andava risolto disquisendo intorno al nodo violenza-non violenza.

Vittimismo e reducismo

Rimaneva comunque un piccolo spiraglio, a margine del discorso sopra, per racconti autobiografici, di soggettività politiche, di aree e blocchi di riferimento. Eccoci, dunque, al secondo tema: le modalità. Queste sono state contraddistinte da almeno due forme – come è precisato nell’editoriale del numero speciale dedicato al G8 di Zapruder, rivista di storia delle conflittualità. La prima è il vittimismo, la seconda è il reducismo. Entrambe, con declinazioni specifiche, mostrano un medesimo intento sotto traccia, consapevole o meno: rimanere e rimandare sempre a quei giorni, cristallizzarne l’esperienza evocando il trauma subito o insistendo sul mito di giorni irripetibili di resistenza. Effetto di questa lettura del passato è l’elaborazione di una memoria divisiva perché contraddistinta dalla presunta unicità del vissuto: nessuno è stato a Genova in quel modo.

Si è cercato, così facendo, di mettere in salvo – nello scrigno dei ricordi – il legame della soggettività con il gruppo, con l’idea di appartenenza, con le pratiche di piazza. L’irripetibilità costruita ad hoc ha traslato l’evento fuori dal contesto del 2001, ricercando un’artificiosa messa a fuoco del momento vissuto in cui sono svaniti i confini tra reale e mitologico. Se questa è l’abituale traiettoria di come le persone ricordano un evento importante, nel caso del G8 ciò ha generato un ampio senso di sconfitta in virtù della costruzione mediatica di poter impersonificare solo il ruolo della vittima e, al contempo, ha dispiegato nell’immaginario pubblico una densa cortina fumogena sul periodo successivo, come se dopo quella data non fosse più possibile scendere in piazza per ideali radicali e di trasformazione del mondo.

L’apocalisse

Genova, in altre parole, è stata raccontata come l’apice di un crescendo a cui è seguita la fine di tutto: della storia - facendo eco alle tesi di Fukuyama - dei movimenti, delle idee, delle possibilità di determinare il futuro. Siamo al terzo snodo analitico: l’apocalisse. Ogni battaglia – come scontro conclusivo tra escatologie non solamente individuali e collettive, ma dell’intero universo – diventa, di per sé, una cesura talmente netta da far incarnare paure e ansie nei corpi che l’hanno vissuta. Quello del 2001 è stato uno scontro irregolare e asimmetrico – da una parte un esercito, dall’altra un movimento. Decentriamo l’attenzione dalla repressione ai suoi effetti. Quali sono questi ultimi? Primo tra tutti di fiaccare la protesta, di spaventare, di incutere paura e terrore, di bloccare l’idea rivoluzionaria – quella per la costruzione di mondi nuovi possibili – colpendo i corpi nelle piazze. A eterogenei ideali per futuri nuovi e percorribili, determinati da processi dal basso, è stata contrapposta la coercizione più brutale dall’alto. L’immanenza della fine in Europa, a Genova, è passata, sì, dal sangue e dal dolore, dal lutto, ma è anche la misura ricercata, si direbbe obbligatoria, per generare negli anni successivi altre redditizie apocalissi ecologiche, economiche, ambientali, politiche, sociali nel resto del mondo. L’imposizione di vivere in un tempo finito, di un presente continuo e perenne senza più eredità e aspettative, è il ricatto distopico per la maggioranza. Sebbene la precarizzazione del lavoro, e della vita più in generale, mostrino gli effetti di tali dinamiche, il più delle volte rimane sottotraccia la questione della presunta fine delle lotte, dei conflitti, della capacità performativa delle idee di cambiare il mondo. Davvero tutto è finito nel 2001? Non pare proprio: basti guardare alle proteste contro la guerra in Afghanistan, alla studentesca Onda Anomala, al movimento No Tav e, allargando lo sguardo al pianeta, a Ni una menos e Black Lives Matter.

La generazione

Infine, la complessità delle piazze del 2001 sono state sussunte nell’idea di generazione. E, ancora una volta, si è immaginato un soggetto collettivo incarnato: una generazione a cui è stata tolta la voce, che è stata sconfitta, battuta, uccisa, a cui è stato portato via il futuro. Eppure, a guardare bene quel movimento, è difficile rintracciare una inequivocabile connotazione in termini di classe d’età, di esperienze comuni, di background culturale. I fatti di Genova. Una storia orale del G8 (Donzelli) nasce proprio da queste riflessioni elaborate nel solco della storia. Il libro è stato pensato come una macchina del ricordo per mostrare i molteplici processi memoriali relativi al 2001. Non si tratta, cioè, di stabilire chi ha vinto o chi aveva ragione. Il testo, infatti, è organizzato intorno alla metafora più stringente del ricordo: il viaggio. La partenza, i giorni delle manifestazioni contro il G8, il ritorno: lungo questa traiettoria, che non termina col 2001 ma giunge al presente, riaffiorano ricordi, emozioni, come anche odori – i lacrimogeni, le auto bruciate – e rumori – il roteare delle pale degli elicotteri sopra i cortei. Anche le amnesie e i silenzi rientrano nella narrazione: la paura di raccontarsi, l’ansia di riportare al presente le violenze efferate, l’angoscia di non essere compresi. È questa una storia plurale e collettiva, ma anche soggettiva, personale e intima; è un’indagine che riguarda le memorie del G8 in un periodo preciso – dal 2001 ad oggi – in cui, però, sono presenti più temporalità e narrazioni diverse. Tanti gli sguardi, come le narrazioni, nessun conflitto tra di esse: tutte hanno diritto di espressione nello spazio simbolico e reale del libro.

La storia orale, poi, permette di generare fonti dall’interazione tra soggettività, spostando così la narrazione su un piano terzo rispetto a quelle solo dell’osservatore e del testimone. Le oltre settanta interviste raccolte, a donne e uomini di diverse età, intendono ricostruire le tante parti del movimento: dal pacifismo cattolico all’associazionismo, dall’eterogeneo mondo dei centri sociali ai black bloc. Nessuna voce è stata esclusa, nessuna parte è stata censurata.

Il libro si apre con la prefazione di Sandro Portelli che introduce il testo, spiegandone l’organizzazione, gli scopi e delineando la struttura del volume in relazione alle scelte storiografiche. Il primo capitolo è dedicato a ricostruire gli eventi precedenti il G8, ossia come i media abbiano creato il clima di guerra veicolando nella sfera pubblica l’idea di attacchi terroristici, del lancio di sangue infetto da parte dei manifestanti, ma anche di una risposta ferrea dello stato: le migliaia di body bags per i possibili morti, le carceri svuotate per gli arresti, i preparativi militari antisommossa. I capitoli che seguono partono dalle storie di chi ha deciso, nonostante il clima ostile, di esserci: le motivazioni, le aspettative, i preparativi. Poi ci sono quei tre giorni: il corteo dei migranti, le piazze tematiche e la grande manifestazione del 21 luglio. Sampierdarena, Piazza Paolo da Novi, Piazza Manin, Piazza Dante, Piazzale Kennedy; il corteo del sabato: luoghi della memoria del G8 raccontati a più voci. Non mancano i racconti di Piazza Alimonda, del blocco nero, di chi è stato arrestato e portato a Bolzaneto, della Diaz. Gli intrecci sono tantissimi, con punti d’osservazione differenti talvolta sullo stesso evento. E poi c’è il ritorno: Genova non è la conclusione, ma semmai la cesura comune da cui partono molteplici vicende personali e collettive.

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