Innanzitutto i nomi. Per non dimenticare, certo. Si dice così; ma sapendo in cuor nostro che saranno dimenticati. Che non avranno tombe degne. Che non ci sarà in loro ricordo un monumento per loro, neanche piccolo; e sicuramente non sarà all’ingresso della Casa Circondariale di Modena S. Anna.

Si chiamavano Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Ouarrad, morti in stato di detenzione a seguito dei disordini nelle carceri del marzo 2020.

E come fu possibile? Vivevamo allora “in tempi eccezionali” che portarono, anche, alla morte i 13 detenuti, ma segnarono la vita di tutti noi.

Incertezza

Siamo nella prima decade di marzo 2020, la “pandemia” si chiama ufficialmente così, la crescita del contagio da virus è esponenziale; gli strumenti per combatterla sono pochi e incerti; mentre si affollano le voci più diverse: è “una banale influenza” o è la nuova peste che distruggerà il mondo? È un regalo della Cina? Di Big Pharma? Chi sono gli “untori”? È vero che moriranno solo i vecchi? Che cosa sta succedendo a Bergamo? In questo marasma, il governo italiano, presieduto da Giuseppe Conte, un avvocato considerato dai politologi una sorta di “re travicello”, prende una decisione storica. L’Italia è il primo paese al mondo a “chiudere tutto”, per decreto. E la stragrande maggioranza del popolo, razionalmente o inconsciamente, capisce che è la cosa giusta da fare.

C’è però un grosso buco nel decreto Conte: le carceri. Dove vivono 60mila detenuti, lavorano 200mila agenti di custodia e amministratori, un mondo che coinvolge almeno un milione di italiani. Nessuno aveva previsto l’impatto che può avere il virus in questo mondo chiuso, povero, sovraffollato. Si fanno tamponi? No. Misure di isolamento, distanza sociale? No, impossibile. Profilassi, sanificazione? No.

Ma si vietano visite dei famigliari, sospesi i permessi per i volontari, annullata la normale attività quotidiana di sostegno che permette a questo mondo, sempre sul punto di esplodere o di implodere, di tirare avanti ancora un po’.

Risultato? Il 9 marzo 2020 scoppiano proteste in 27 istituti penitenziari italiani. I detenuti salgono sui tetti, si rifiutano di tornare nelle celle, battono sulle sbarre, danno fuoco a materassi e coperte. La televisione trasmette scene decisamente incredibili: a Rebibbia i detenuti sono usciti dal carcere (nessuno li ha fermati) e fanno sentire ai giornalisti e ai famigliari accorsi, che hanno bloccato la via Tiburtina, le loro ragioni. Potrebbero addirittura filarsela, non c’è nessun controllo.

A Foggia invece avviene un tentativo di evasione di massa, che la polizia non riesce a contrastare. (I fuggitivi saranno catturati in pochi giorni). Voci arrivano da dentro: chiedono che i vecchi – nelle sovraffollate carceri italiane vegetano quasi mille ultrasettantenni) siano scarcerati, che i detenuti in scadenza di pena vengano rimessi in libertà in anticipo, che ci sia l’isolamento dei positivi, che vengano ripristinati i colloqui, che ci sia un indulto o un’amnistia data la straordinarietà della situazione.

La versione di Bonafede

Il governo è frastornato. Il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, noto per essere un fautore della “linea dura”, della carcerazione, della progressiva militarizzazione delle carceri, non si fa sentire. Il capo del Dap, Francesco Basentini, da cui dipende tutta l’amministrazione carceraria, chiaramente non controlla la situazione.

Modena arriva in quei giorni, in quelle ore. Notizie e immagini confuse. Dal carcere S. Anna si alzano colonne di fumo, voci frammentarie dicono che c’è stata una rivolta e che i detenuti hanno preso possesso di un braccio del carcere; però poi gli agenti sono andati alla riscossa e hanno ripreso il controllo della situazione.

Dicono che ci siano dei feriti, anzi che ci sia un morto. Anzi, che ce ne siano due, anzi tre. Ho ancora negli occhi spezzoni di immagini trasmesse da una televisione locale: il trasferimento di tutti i detenuti del S. Anna verso “altre destinazioni”… È una scena spettrale. Si vedono tre feretri fatti uscire tra due spaventate e minacciose file di poliziotti in tenuta antisommossa più mascherina. (Non si sa chi ci sia dentro. Mi ha ricordato la scena dell’esplosione della miniera di Marcinelle in cui morirono 262 minatori italiani, ma li portavano su travestiti da sacchi di carbone, per non pagare l’assicurazione).

Si vede un gruppo, verosimilmente di famigliari, arrivato a chiedere notizie. L’aria è tesa, fa freddo. Lo schieramento militare è troppo. C’è un battibecco tra un agente in borghese e un maturo signore, si sente questo frammento, in pesante accento emiliano: «Allora aveva ragione Hitler che li mandava tutti nelle camere a gas…». Ma tutta l’operazione ha funzionato, il carcere S.Anna (548 detenuti, in una struttura fabbricata per contenerne 369) è stato completamente svuotato, pacificato, sterilizzato. L’ordine regna al S. Anna. Radiocarcere si incaricherà nei giorni seguenti di raccontare storie – o leggende? – della diaspora di quella schiuma della terra che aveva scampato Modena ed era arrivata nelle carceri di mezz’Italia con i segni dei pestaggi.

Ma questo era solo il primo tempo del film dell’orrore, perché nei giorni seguenti, nelle più diverse carceri italiane, distanti anche centinaia di chilometri, spuntarono altri morti. Cause naturali, overdose da farmaci o chissà cos’altro. Erano stati appena trasferiti dal carcere di Modena, alcuni erano arrivati in cattive condizioni, altri addirittura già morti. Nessuno era arrivato in ambulanza; piuttosto sui cellulari della polizia. Il conto finale? Tredici detenuti morti. Tredici: il più grave “fatto” avvenuto nelle carceri italiane nella loro peraltro poco edificante storia. Il più grave fatto mai avvenuto nelle carceri della civile Europa, di cui l’Italia fa parte.

Non si vuole la verità

Cosa si sa, ora di che cosa era successo? A distanza di quindici mesi non esiste alcuna verità, ed anzi non c’è nessuna volontà di cercarla. Di quegli avvenimenti resta solo un “quadro generale”. Il 9 marzo un folto gruppo di detenuti del carcere di Modena (qui non c’è la grande criminalità, ma piuttosto uno spaccato della popolazione carceraria italiana, giovani per reati legati alla droga, molti immigrati, molti sofferenti per dipendenza da farmaci stupefacenti) prende possesso dell’infermeria dell’istituto, dove sono custodite – in cassaforte – le bottiglie di metadone, succedaneo dell’eroina, usato sia a scopo terapeutico, sia per combattere crisi di astinenza. Le guardie sono prese alla sprovvista e soccombono davanti alla violenza dei rivoltosi. I detenuti, non si sa come, riescono ad aprire la cassaforte e si “attaccano alle bottiglie” di metadone. Quanti? Non si sa. Quanto ne hanno bevuto? Non si sa. Perché? Non si sa, si ipotizza uno stato generale di ebbrezza, di euforia, di trasgressione. O forse una volontà di suicidio? Ma presto gli effetti di quelle sorsate si manifestano. Svenimenti, perdita di coscienza, convulsioni, collassi. Dopodiché gli agenti riescono a prendere il controllo della situazione e provvedono al trasferimento di tutti i detenuti. I morti sono una tragica fatalità.

Ci sono dei problemi, anche per le persone più miti ed obbedienti alle verità ufficiali, ad accettare questa versione dei fatti. Provo ad elencarne alcuni:

L’intossicazione da metadone, o altre crisi analoghe, è pane quotidiano delle carceri italiane dove una larga fetta di detenuti è tossicodipendente. Come ogni direttore di penitenziario sa, e come sa il personale medico, l’intossicazione acuta da metadone ha un antidoto veloce ed efficace. Si chiama Narcan, da decenni usato per combattere le ovderdose. Il paziente che riceve una fiala di Narcan si risveglia dal suo sonno comatoso in pochi minuti.

Nessuna persona, con coscienza e professionalità, potrebbe ordinare il trasferimento di persone sofferenti senza visita medica, senza un’ambulanza attrezzata per affrontare un viaggio lungo senza assistenza di personale specializzato; i detenuti invece viaggiarono ammanettati? Furono curati alla loro destinazione finale? Quanti vi arrivarono già morti? Certo che dovevano essere ben paurose le strade italiane in quelle notti di marzo, con i camion dei monatti con le insegne dell’esercito italiano che trasportavano salme di sconosciuti delle valli bergamasche e cellulari di polizia che scaricano detenuti, alcuni dei quali moribondi, ai cancelli delle carceri.

Dopo che la rivolta del carcere di Modena fu domata, ci furono violenze sui detenuti che vi avevano partecipato?

Tutto questo, all’epoca non si sapeva, o non si voleva sapere. I morti di Modena non fecero notizia. Per giorni non si seppero neppure i loro nomi, che vennero rivelati, con atto di coraggio, dal giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella, 11 giorni dopo; il ministro Bonafede, rispondendo in parlamento, non solo aveva minimizzato gli episodi, ma aveva elogiato le forze dell’ordine che avevano tenuto testa ad un rivolta che metteva in discussione le fondamenta dello stato. Riguardo alle cause dei decessi, Bonafede disse solo che erano morti «per lo più per overdose». Per lo più, avete capito bene. Qualcuno, chi più chi meno, uno vale l’altro, tanto sono spazzatura.

E di questa spazzatura, per lo più morta lì, su un pavimento, non assistita, forse rantolante ammanettata su qualche cellulare della polizia, sappiamo comunque qualcosa di più.

Erano italiani, magrebini (tunisini, marocchini, un algerino), un moldavo, un ecuadoriano, un croato. Come scrisse all’epoca Adriano Sofri, «una lapide potrebbe unire i loro nomi, luogo e data di nascita, luogo e data di morte, e tre sole parole, maiuscole: PER LO PIÙ».

Come spazzatura

E dunque, ecco Marco Boattini, 40 anni, Ante Culic, 41 anni, Carlos Samir Perez Alvarez, 28 anni (sono i tre morti nel carcere di Rieti). Scrive oggi Sofri, in un lungo e profondo resoconto sul passato, presente e futuro delle carceri italiane che appare sul Foglio: «C’è una lettera di detenuti in mano alla Procura di Rieti: “Hanno avuto un primo soccorso e sono stati riportati a morire in cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura. Per noi, nei giorni a seguire non è stato facile: sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano “merde, testa bassa!”, “vermi” e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte”».

Gli altri nomi: Haitem Kedri, 29 anni, morto a Bologna. Non aveva nemmeno preso parte alla rivolta.

E quelli del S.Anna di Modena. Hafedh Chouchane, 37 anni (è quello che sarebbe uscito due settimane dopo), Erial Ahmadi, 36 anni, Slim Agrebi, 40 anni, Ali Bakili, 52 anni, Lofti Ben Mesmia, 40 anni, Abdellah Rouan, 34 anni, Artur Iuzu, 42 anni, Ghazi Hadidi, 36 anni. E Salvatore Sasà Cuono Piscitelli, 40 anni, trasferito e morto ad Ascoli: l’unico per il quale l’indagine non è chiusa.

E poi aggiungiamo, rivelato dall’inchiesta di Domani sulle sevizie nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 27enne algerino Lamine Hakimi, prima picchiato a sangue e poi lasciato morire in isolamento.

Perché non ce ne occupammo, quindici mesi fa? Perché non capimmo la gravità di quanto era successo? Certo, giustificazioni non mancarono (c’era la pandemia, non ce la siamo dimenticata).

Il governo, nelle persone del ministro Bonafede (ma non solo) inquadrò gli avvenimenti sotto tutt’altra luce. Le rivolte nelle carceri erano state organizzate e fomentate dalla criminalità organizzata, che era stata talmente potente da poter far partire un ordine di mobilitazione in tutte le carceri italiane. L’obiettivo era di sfruttare la situazione per ottenere indulto o amnistia, o comunque condizioni di maggior favore per i loro associati nel circuito del 41 bis. I giornali pubblicarono con titoloni articoli scandalizzati per il fatto che una dozzina di ottantenni, in genere malati oncologici, erano stati mandati a casa. Il ministro licenziò il capo del Dap Basentini, non perché responsabile delle morti in carcere, ma perché aveva “abbassato la guardia” nei confronti dei boss. Un momento di rara assenza di decoro si ebbe quando il magistrato Nino Di Matteo intervenne in una trasmissione di trash tv per lamentarsi di non essere stato nominato lui, a quel posto.

E accusando il ministro di aver ceduto anche lui ai boss. (I quali boss, che si sappia, peraltro non ebbero nessun ruolo nelle rivolte delle carceri del marzo 2020).

Una lite da lavandaie che giungeva nel momento in cui la magistratura tutta, e la sua credibilità, si stava distruggendo tra scandali e vendette interne.

Il potere del Dap

Ma almeno quella vicenda è servita per capire quanto potere abbia in Italia chi “controlla le carceri” e perché il ruolo di capo del Dap sia il meglio pagato di tutta l’ammistrazione dello stato italiano. Dal carcere passa tutto: c’è il 41 bis con i suoi segreti (un’istituzione centrale per gli equilibri della nostra civiltà giuridica e politica!), ci sono i “colloqui investigativi” con i loro segreti, ci sono i patti segreti tra servizi e mafie, c’è il potere dei sindacati della polizia penitenziaria, ci sono le campagne di opinione pubblica che decidono poi le vittorie elettorali.

È troppo importante, il carcere, per essere disturbato. E così infatti avvenne. I “tredici di Modena” vennero dimenticati e le loro storie insabbiate. Autopsie sommarie, inchieste debolissime e svogliate, poca e nulla la pressione dei grandi partiti politici, dell’opinione pubblica o della chiesa, molto limitata addirittura l’indignazione e la raccolta di firme; lodevoli, generosi e coraggiosi naturalmente, i soliti noti: i radicali, le associazioni che si occupano dei detenuti, i volontari, qualche giudice di sorveglianza.

Nel mese scorso la procura di Modena ha archiviato tutto in tre paginette, in cui si dice che non c’è alcun motivo di dubitare della versione dei fatti data dalla polizia e dai responsabili del carcere.

Non sembra dunque ci siano molte altre vie per ottenere verità e giustizia, nome che si è dato un “comitato” nato l’anno scorso presso la camera penale di Modena e che ci tiene informati. (info@dirittiglobali.it)

La vicenda di Santa Maria

Ma perché allora parliamo di questa storia? Perché, grazie al video pubblicato da Domani quello che successe nelle carceri italiane al tempo del primo lockdown, è letteralmente esploso. E la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia, non si è nascosta dietro l’enormità di quanto successo.

La vicenda di Santa Maria Capua Vetere sta a dimostrare che la stampa libera ancora conta, che nel nostro modo di vivere una registrazione di una telecamera di sorveglianza può cambiare il mondo, come il video di una ragazzina di diciassette anni ha cambiato l’America. E quindi chissà…anche l’Italia e le sue carceri potrebbero cambiare.

La nostra storia però non gioca a nostro favore. Di morti “in custodia” dello stato ce ne sono stati moltitudini.

Il mondo del carcere e delle questure non conosce l’habeas corpus; e sa difendersi molto bene , come dimostra la storia, lunga 52 anni, dell’anarchico Pino Pinelli, anche lui in custodia dello stato. Dissero che era morto per un malore attivo. Divenne la verità, la legge.

Se abbiamo creduto a quello, perché non credere che i 13 di Modena sono morti, per lo più, per aver ingerito metadone?

 

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