Per gli amanti del genere forse è la fine di un’epoca. E in ogni caso, per un po’ di tempo, saranno scoraggiati a spedire le loro verbose o circostanziate lettere con quell’inconfondibile firma in fondo: “un amico”. I Corvi, in Sicilia, si presentano e vengono rappresentati sempre così: amici. Amici della giustizia, il più delle volte. Animati dallo spirito vendicatore di svelare malefatte dell’amministrazione pubblica, sulle contiguità fra il mondo di sotto e il mondo di sopra, sull’insospettabile mafioso della porta accanto. Interessati e disinteressati (pochi, in verità), d’ora in poi a Palermo i cultori della lettera anonima avranno vita complicata.

Una direttiva del procuratore capo della repubblica di Palermo rischia di interrompere una “tradizione” lunga almeno un secolo, pratica che ha sempre appassionato comuni cittadini e pure boss, grafomani di natura e maniaci della denuncia, un variopinto campionario umano dedito alla scrittura diciamo sotto copertura. Basta più. Gli uffici giudiziari palermitani sono invasi da atti d’accusa senza tracciabilità, cancellerie e scrivanie dei sostituti ingolfate da carte su vere o presunte ruberie nella sanità, su misteriose partecipazioni societarie, su opache gestioni di beni confiscati.

Il popolo degli “amici”

Così il procuratore Maurizio de Lucia, insediato appena un paio di settimane fa, ha inviato a tutti i suoi colleghi, e per conoscenza al Consiglio superiore della magistratura, una nota con l’ordine di archiviare immediatamente ogni esposto anonimo per evitare i cosiddetti “accertamenti preliminari”. Sei fogli motivati punto per punto che chiudono, se non per casi eccezionali, le porte in faccia al popolo degli “amici”. Troppe lettere depistanti, troppi palesi risentimenti trasformati in notizie di reato, troppe informazioni tossiche che quotidianamente pervengono via lettera a piazza Vittorio Emanuele Orlando 1, 90138 Palermo. L’indirizzo del tribunale di Palermo.

Vedremo come andrà a finire, certo è che nel passato e in alcune zone dell’isola ancora oggi – in quartieri palermitani come Brancaccio o San Lorenzo, in paesi come Corleone o Castelvetrano – l’unica possibile forma di collaborazione fra molti siciliani e lo stato italiano rappresentato da una toga o da una divisa, è sempre stata la lettera anonima. I tempi sono naturalmente cambiati, però c’è chi pensa ancora che il solo “dialogo” consentito sia quello.

Il vizietto di Totò Riina

Uno specialista della materia – sorpresa!!! – era nientemeno che Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra, il mafioso che ha ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quello che ripeteva ai suoi che «la curiosità è l’anticamera della sbirritudine», e che diceva dell’amico Bernardo Provenzano che era «troppo scrittore» per quei pizzini che mandava in giro. Ebbene, Totò Riina aveva fama di anonimista fin da ragazzo.

«Signor giudice, quel signore ha il vizietto», aveva rivelato nel suo famoso interrogatorio nell’aula bunker indicando Riina. Quale vizietto? «Eh, le lettere anonime, uh quante ne ha fatte Totò». Qualche udienza dopo Totò Riina gli ha risposto a distanza: «Scusatemi se li chiamo pen-ti-ti, una volta c’erano le letteri anonimi e ora che vengono cestinate e non sono più valide ci sono questi pen-ti-ti..la lettera anonima non era firmata, questi invece si firmano e sono tutti un abbraccio». Dibattito molto acceso.

Il figlio del barbiere

Una cinquantina di anni prima gli amici di Totò Riina erano stati travolti proprio da una lettera anonima. Arrivata sette giorni dopo il rapimento del sindacalista Placido Rizzotto, avvenuto a Corleone il 10 marzo 1948, all’allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa e al deputato del partito comunista Girolamo Li Causi. Poche righe ma molto precise: «Attento alle perzone che ti faccio presenti io che è stato le carnefici di Placito, prima li fratelli Crisciuna tutte le due, poi Leggio Luciano». Fu Pasquale Criscione ad attirare il sindacalista in una trappola, fu il boss Luciano Liggio a ordinarne la morte.

Quelle che in tempi antichi erano considerate dagli investigatori “fonti degne di fede”, non erano altro che la voce del popolo che prendeva forma di lettera anonima. Alcune precisissime, preziose. Alla squadra mobile di Palermo, all’inizio degli anni Ottanta, ne arrivavano a migliaia.

Un paio di giorni dopo l’uccisione del segretario siciliano del partito comunista Pio La Torre, il 30 aprile 1982, ne hanno consegnata una al capo della sezione omicidi Francesco Accordino: «Cercate il movente intorno alla base missilistica di Comiso, cercatelo anche per il suo impegno per far approvare la legge antimafia, ma sappiate che il mandante è il figlio del barbiere di Corleone e fra gli assassini c’è un palermitano della famiglia di Resuttana». Le indagini successive hanno accertato che il palermitano della famiglia di Resuttana era Antonino Madonia, che poi è stato condannato all’ergastolo. Il figlio del barbiere di Corleone non era altro che Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo.

Il Corvo di Palermo

Lettere che indicano piste e lettere che portano fuori strada. Peggio: infamano. È la storia del Corvo di Palermo, primavera del 1989. Nelle campagne di Bagheria, il 26 maggio, viene catturato Salvatore “Totuccio” Contorno, un sicario pentito. Tutti lo danno sotto protezione a Roma e invece è in Sicilia per stanare i suoi nemici di cosca.

Un anonimo, sicuramente scritto da qualcuno molto addentro alle vicende più segrete, racconta che Contorno è sceso nell’isola sguinzagliato dall’allora capo della Criminalpol Gianni De Gennaro e con l’“autorizzazione” di Giovanni Falcone. È una calunnia. Ma l’anonimo ha l’obiettivo di screditare davanti all’opinione pubblica il giudice, in pratica accusa Falcone di manovrare un killer di stato.

Testo inviato all’alto commissario Domenico Sica: «Tutti erano a conoscenza che Contorno era stato inviato a Palermo, tutto era stato peraltro concordato anche con dei magistrati e in particolare con i giudici Falcone, Ayala e Giammanco con i quali in questi ultimi tempi De Gennaro si è incontrato. De Gennaro, quindi, e i magistrati suddetti hanno inviato Contorno a Palermo ben sapendo che avrebbe commesso dei gravi reati. Si tratta di gravissime responsabilità se si considera che Contorno ha ucciso Mineo, Baiamonte, Messicati e Cerva. Sono veri e propri omicidi di stato».

Scoppia uno scandalo e come autore della lettera viene individuato il sostituto procuratore Alberto Di Pisa. Il magistrato (che poi sarà assolto) nega ma dice che è comunque d’accordo con il contenuto dell’anonimo. Giovanni Falcone è accusato di fare il gioco sporco, di avere usato un mafioso contro i mafiosi. È per lui il più grande disonore. Un’operazione di delegittimazione che anticipa di qualche settimana l’attentato sugli scogli dell’Addaura. Prima il mascariamento, poi il tritolo.

Fra le due stragi

In un palazzo di giustizia che fra il 1989 e il 1992 sembrava un giardino zoologico con tutti i suoi serpenti, le sue talpe e i suoi corvi, fra l’uccisione di Falcone e quella di Borsellino si materializzano sette pagine che fanno paura. È un anonimo recapitato a trentanove indirizzi: il Quirinale, i direttori dei quotidiani italiani, alcuni magistrati, il capo della polizia.

Lì dentro c’è il movente dell’omicidio del boss democristiano Salvo Lima, la ricostruzione di come era stato “bruciato” Andreotti nella corsa alla presidenza della Repubblica, l’annuncio del pentimento di massa dei mafiosi. Fra le righe compare per la prima volta anche la parola “accordo”, qualcosa che faceva pensare alla futura trattativa fra stato e mafia.

Testuale: «Riina accetta l’accordo anche a nome dei catanesi di Santapaola e della mafia dell’agrigentino». Uno scritto confezionato da uno del mestiere, documento di ventotto punti che somigliavano tanto a ventotto deleghe di indagine.

Mai scoperto l’autore al contrario di una caterva di lettere mandate da un bizzarro personaggio palermitano, tale Di Marco, con oggetto il falso pentito Vincenzo Scarantino e un fantomatico killer sudamericano che a suo dire aveva ucciso Bernardo Provenzano con un fucile con cannocchiale. Si trova di tutto nel sacco degli anonimi. E sarà forse anche per questo che il procuratore De Lucia ha deciso di chiudere con le lettere senza firma, che tra l’altro non hanno alcun valore processuale, lettere che spesso costringono poliziotti e carabinieri all’estenuante ricerca di riscontri che non trovano mai.

Annota nella sua direttiva De Lucia: «L’esperienza dimostra la pressoché totale inutilità di tali accertamenti, che si risolvono in un considerevole spreco di tempo e di risorse». Anonime, alla procura di Palermo, saranno considerate d’ora in poi anche le denunce per posta elettronica ordinaria.

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