- La mafia, in tempi di pace, se non la cerchi non la trovi. È difficile raccontarla quando non spara, quando non si manifesta con la violenza delle armi, le bombe, il sangue. Per il giornalismo è difficile farla diventare reportage, inchiesta, anche solo resoconto quotidiano.
- È un copia e incolla permanente di richieste di custodia cautelare spacciate come scoop, retroscena esclusivi che sono veline. I mafiosi con il “bollo”, il timbro della giustizia, per fortuna non godono più di buona reputazione. Perché perdenti.
- Meglio occuparsi della mafia del muro basso, la mafia nota. Che non querela, non cita per danni, abituata ai titoloni e alle urla. Le urla, un altro capitolo del giornalismo 2.0 o 3.0. Quelle degli “influencer dell’antimafia”, retorica a fiumi e una tempesta di “like” per i pensierini a ogni anniversario, con una sovrabbondanza di maiuscole su Facebook.
Se una cronaca li cita per nome, “Giovanni” e “Paolo”, cambio subito pagina perché la Sicilia in maschera ha cominciato ad andare in scena e in stampa con l’abuso delle parole. Se un giornalista si dichiara “antimafia” e il più delle volte la notizia non è ciò che scrive ma sé stesso, forti sospetti si insinuano su cosa sia (diventato) il nostro mestiere. Se un boss appena deceduto per cause naturali viene qualificato in un articolo come “gran bel pezzo di merda”, è legittimo chiedersi quanto si



