Dati raccolti e usati per trarne enormi guadagni senza avvertire gli utenti del loro reale utilizzo, violando così le norme sul Codice del consumo e intaccando le norme sulla privacy. Con una sentenza il Consiglio di Stato ha sancito definitivamente che Facebook in Italia ha messo in essere una colossale «pratica commerciale scorretta» che tocca oltre 30 milioni di italiani, potenzialmente. Ovvero tutti gli utenti del popolare social network americano che ha cambiato la logica e la forma delle nostre interazioni negli ultimi 15 anni.

La sentenza italiana mette la parola fine a un lungo contenzioso amministrativo, nato da un procedimento dell'Antitrust (Agcm) su impulso dell'associazione Altroconsumo e culminato a fine 2018 con una multa complessiva da 10 milioni di euro, comminata dall'Autorità per la concorrenza a Facebook Inc e Facebook Ireland, le due società titolari dei diritti sull'applicazione che ha raccolto utenti in Italia come nessun altro servizio digitale. Negli Stati Uniti, invece, per spegnere le accuse di violazione alla privacy dei suoi utenti il gruppo fondato da Mark Zuckerberg nel 2019 ha pagato una maxi multa da 5 miliardi di dollari alla Federal Trade Commission. Di gran lunga il più grande assegno mai staccato da una società americana per un caso come questo.

Tornando al procedimento italiano, i commissari dell'Agcm avevano analizzato il metodo Facebook: invogliare gli utenti a iscriversi al suo servizio per gestire le informazioni personali, stabilendo la violazione di due pratiche commerciali. La prima, ritenuta «ingannevole» dall'Autorità, consisteva nell’avere adottato, nella fase di prima registrazione dell’utente nella piattaforma, un’informativa ritenuta priva di «immediatezza, chiarezza e completezza», in riferimento alla attività di raccolta e utilizzo, a fini commerciali, dei dati degli utenti. La seconda, qualificata come «aggressiva», si concretizzava nella applicazione di un meccanismo che comportava la trasmissione dei dati degli utenti dalla piattaforma ai siti o alle app di terzi e viceversa a scopi commerciali, senza preventivo consenso espresso dell’interessato.

I legali di Facebook, che si fa assistere in Italia dallo studio Baker McKenzie, avevano prontamente fatto ricorso al Tar del Lazio che nel 2020 aveva dato loro parzialmente ragione. I giudici amministrativi avevano infatti accolto le tesi di Facebook, facendo cadere l'accusa di pratica aggressiva ma confermando quella di pratica scorretta.

Con il successivo ricorso al Consiglio di Stato il colosso californiano ha provato a eliminare anche la seconda contestazione facendo leva, tra le altre cose, sul fatto che in tema di dati personali non ci si potesse riferire al Codice del consumo, tanto più quando l'iscrizione alla piattaforma social era – ed è tuttora – gratuita, ma alle norme sulla privacy. «Nel contesto di una attività genuinamente gratuita quale è il servizio FB non vi è spazio, nemmeno teorico, per ipotizzare l'esistenza di una pratica commerciale (scorretta, ndr)» avevano scritto gli avvocati nel loro ricorso. Inoltre, era sempre la loro tesi, gli utenti fornirebbero «volontariamente» i propri dati «ben prima che gli stessi siano utilizzati per pubblicità» e che gli stessi «costituiscono un bene extra commercium, trattandosi di diritti fondamentali della persona che non possono essere venduti, scambiati o, comunque, ridotti a un mero interesse economico». E in ogni modo gli utenti avrebbero sempre la possibilità di limitare i dati ceduti alla piattaforma, agendo sul proprio pannello di controllo.

L’accusa

A questi e altri motivi d'appello più squisitamente giuridici, il Consiglio ha risposto che il consumatore non sarebbe stato in realtà adeguatamente informato sul meccanismo di utilizzo commerciale dei suoi dati «restando convinto che il conseguimento dei vantaggi collegati con l’accesso alla piattaforma sia gratuito». E se anche l'utente avesse voluto deselezionare i dati forniti a Facebook, questo accadrebbe quando ormai li ha già messi a disposizione della piattaforma, perdendone il controllo di fatto, come è stato stabilito. Questi motivi, tra gli altri, hanno portato alla conferma della sentenza del Tar del Lazio.

Class action in corso

Questa sentenza Antitrust è importantissima non solo perché Facebook dovrà usare maggiore trasparenza sull’utilizzo dei dati dei suoi utenti, ma anche perché la decisione potrebbe influenzare la class action intentata da Altroconsumo presso il Tribunale civile di Milano, con lo scopo di poter risarcire tutti gli utenti «ingannati» dal gruppo di Zuckerberg. Le due parti avevano messo in stand by il procedimento in attesa proprio della pronuncia del Consiglio, che ha anche il potere di vincolare il giudizio civile, secondo le regole del nostro diritto.Il Tribunale ammetterà la class action? Nell’attesa di riprendere con le udienze a fine aprile, Facebook e Altroconsumo hanno anche fatto partire una serie di consultazioni per poter chiudere anticipatamente la causa con una transazione di cui non è chiara la modalità. Ma la vittoria in sede amministrativa potrebbe far saltare il tavolo e convincere l’associazione dei consumatori a perseguire ancora la strada della class action che avrebbe già raccolto circa 160 mila preadesioni di utenti italiani, che, in caso di vittoria, sarebbero risarciti.

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