«Starà scrivendo un poema, vuole scrivere le sue memorie…vuole fare una cosa apocalittica per chiudere la sua carriera. Mo gliela chiudo io la carriera!». Paolo Bellini, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, è furioso con il giudice del processo bis sull’atto terroristico più sanguinario della storia repubblicana.

Quello che a distanza di oltre quarant’anni l’ha individuato come uno dei componenti del commando di terroristi neri esecutore della strage, organizzata secondo l’accusa dal capo della loggia P2, Licio Gelli, dal banchiere Umberto Ortolani, dall’ex direttore dell’ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e dal giornalista Mario Tedeschi, tutti deceduti e non processabili. Il deposito delle motivazioni però è rimandato di quasi nove mesi, e nel mirino dell’ex avanguardista pluriomicida finisce anche il presidente della Corte d’Assise di Bologna, Francesco Caruso, che il 6 aprile 2022 l’ha condannato al carcere a vita. Bellini lo definisce “il Cambogiano”.

Poi quel riferimento, sinistro, al figlio del giudice: «Mo ho scoperto che c’ha il figlio che è diplomatico a Porto Alegre in Brasile». Non una città qualunque. Nel Paese sudamericano Bellini ha avuto contatti importanti grazie ai quali ha organizzato la sua latitanza negli anni ’70 sotto il falso nome di Roberto Da Silva.

Investigatori e magistrati prendono molto sul serio le sue parole. Intercettato il 5 dicembre 2022 dalla Dda di Caltanissetta, che sta svolgendo indagini riservatissime, Bellini fa riferimento anche a un progetto di omicidio nei confronti dell’ex moglie Maurizia Bonini, che nel 2021 ha testimoniato contro di lui al processo, riconoscendolo sul luogo del delitto in un filmato amatoriale: «Ho appena finito di pagare 50 mila euro per far fuori uno di voi Bonini, eh non si sa quale!» urla Bellini nel salotto casa, dove sta scontando gli arresti domiciliari, forse parlando tra sé e sé. Ieri è finito in carcere, arrestato su richiesta della procura generale di Bologna, che riteneva sussistente anche il pericolo di fuga, non riconosciuto però dalla corte d’appello di Bologna. Per i giudici bolognesi potrebbe invece commettere nuovi reati.

La sua abitazione è stata perquisita a lungo. Bellini aveva minacciato la moglie anche nel corso del dibattimento di primo grado, quando l’aveva riconosciuto in un fotogramma cruciale da una fossetta sul mento: «Poi vedremo la fossetta e vedremo le fosse, fosse e fossette, ci sono anche le fosse», aveva risposto ridendo davanti alla corte. Con quella dichiarazione l’ex moglie aveva rotto una consegna del silenzio che durava da decenni intorno all’alibi del marito per il 2 agosto 1980, che fino ad allora lei stessa aveva confermato: non era a Rimini ma in stazione a Bologna, in orario compatibile con lo scoppio dell’ordigno.

Bellini invece non ha ripensamenti. E non parla. Forse non può, come ammette lui stesso in un altro passaggio intercettato: «Io ho sopportato quarant’anni a stare zitto, tutto il fango che mi hanno buttato addosso - sbotta a pranzo con i famigliari - e non potevo mai contrastarli perché c’era di mezzo un giuramento». Ma quale giuramento? Per la prima volta sembra emergere l’esistenza di un patto sulla strage di Bologna. Tra chi? Quali gli obblighi e le contropartite? E chi sarebbero i garanti? D’altra parte, quella di Bellini è una figura complessa.

Non è stato solo un killer di Avanguardia Nazionale, la formazione eversiva fondata da Stefano Delle Chiaie e sciolta nel 1976. Indagini e processi hanno documentato, anche solo a livello indiziario, i suoi rapporti con gli apparati “deviati” dei servizi segreti, intrattenuti attraverso il procuratore capo di Bologna all’epoca della strage, Ugo Sisti, amico intimo del padre Aldo. Il procuratore Sisti, titolare delle indagini sulla strage, il 4 agosto 1980 si trovava a Reggio Emilia, nell’albergo ristorante della famiglia Bellini. Fu identificato dalla Digos durante una perquisizione a sorpresa.

Bellini aveva rapporti privilegiati anche con ambienti mafiosi. Nel ’92 avvicina Nino Gioè per conto dei carabinieri del maresciallo Tempesta, dopo essersi proposto come mediatore per far recuperare allo Stato importanti opere d’arte. In quegli stessi mesi uccide a Cutro Paolino Lagrotteria per conto della ‘ndrangheta. Il coinvolgimento nel processo per la strage dell’80 è arrivato come una doccia fredda. A chi non parla, resta solo la vendetta. O la fuga: «Coi servizi non ci voglio avere a che fare - sbotta il 24 aprile scorso leggendo la sentenza di Bologna - Mi devi aiutare ad uscire…devo scappare…da qui dentro…e io te ne sarò grato per tutta la vita».

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