Ho trovato, conservato nell’Archivio centrale dello stato a Roma, uno scritto del 27 ottobre 1993 di Piero Luigi Vigna, all’epoca procuratore della Repubblica di Firenze su Stragi vecchie e nuove – questo era il titolo. Si andava dalla strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e si arrivava al 1992, stragi di Capaci e di via D’Amelio, e al 1993 con epicentro Roma, Firenze, Milano.

Tutte stragi con un numero elevato di morti; ma ci sono state altre tentate stragi che dall’aprile 1974 all’agosto 1983 per vari motivi non provocarono vittime. Una ragnatela di morti e di attentati, una trama criminale potente e duratura a cui si possono aggiungere vari tentativi di colpo di stato.

«Le stragi – scriveva Vigna – sono le forme, efferate e visibili, di poteri criminali che tendono a rendersi invisibili, segreti e sono caratterizzati da un alto tasso di impermeabilità». Questi poteri criminali agiscono in «un luogo» dove convergono «altri poteri invisibili, come quelli di certa massoneria, servizi infedeli, lobbies d’affari, dando spesso luogo ad una compenetrazione fra l’uno e l’altro». Vigna notava una «differenziazione» tra le stragi del primo periodo che si svolsero fino alla metà degli anni Settanta e quelle più recenti che si possono datare dall’attentato al treno rapido 904 del Natale 1984 e che arrivano fino alle stragi siciliane.

Il primo periodo delle stragi si può inquadrare nella stagione della strategia della tensione «portata avanti dalla destra eversiva in connubio, almeno nella forma di depistaggio delle indagini, con parti di un altro potere occulto: i servizi segreti». Queste stragi rientravano «nella visione propria dei gruppi della destra eversiva». Terminate queste stragi, iniziava la fase del «terrorismo mafioso» che aveva «il fine punitivo e vendicativo dell’azione».

Un’ottica nuova

Da allora a oggi sono trascorsi trent’anni e tante cose sono cambiate. La forte azione di contrasto da parte dello stato ha portato alla definitiva sconfitta dell’ala corleonese di Cosa nostra (non di tutta la mafia). Oggi conosciamo molto di più di quanto conosceva Vigna nel 1993 ma non sappiamo tutto quello che è accaduto perché chi ha depistato e ha dato una mano ai mafiosi e agli stragisti neri non ha ancora un nome e un cognome, perché ci sono state «stragi talvolta compiute con la complicità di uomini da cui lo stato e i cittadini avrebbero dovuto ricevere difesa» ha ricordato di recente il presidente Sergio Mattarella.

Alla luce di tutto ciò c’è da chiedersi se non sia lecito guardare a tutto quello che è accaduto in questi decenni, da piazza Fontana in poi, con un’ottica nuova. Tra strategia della tensione e strategia mafiosa non c’è una separazione così netta, c’è invece un filo che lega alcune vicende e che mette in continuità la strategia della tensione con le sue stragi e lo stragismo mafioso. Fatti criminali e stragisti sono il frutto dello sviluppo di una strategia maturata negli anni della guerra fredda e che via via s’è andata arricchendo nei soggetti coinvolti e in parte negli obiettivi perseguiti. Proviamo a vedere chi sono i protagonisti: eversione fascista, una «certa massoneria e servizi infedeli», P2, mafiosi.

Paolo Bellini

Uno dei protagonisti di assoluto rilievo che ci aiuta a comprendere il mutamento intervenuto è Paolo Bellini, originario di Reggio Emilia, «mercenario della malavita», come lo definì Vigna. L’uomo è «personaggio complesso, che sfugge ad ogni intento definitorio, essendo nel corso della vita passato attraverso molteplici esperienze, dalle operazioni di “spionaggio” internazionale, svolte in giovane età alla stagione degli “anni di piombo”», dalla carcerazione in vari istituti penitenziali, al «divenire un interlocutore privilegiato di Cosa nostra, per arrivare, infine, al periodo in cui mise al servizio della ‘ndrangheta, la sua dote migliore, l’arte di uccidere».

Questo giudizio è tratto dalla sentenza dell’aprile 2022 della Corte d’assise di Bologna presieduta da Francesco Caruso con la quale Bellini è stato condannato all’ergastolo per la strage di Bologna dell’agosto 1980.

Bellini era a Bologna in quel terribile giorno, ed è scoperta recente perché del coinvolgimento di Licio Gelli e di uomini dei servizi segreti si sapeva già. Il reggiano è uomo dai mille volti e dai mille ruoli. È probabile che lui abbia lavorato «sotto traccia» per non essere visibile «relazionandosi a quella parte dei servizi, militari o civili, che avevano relazioni strette con esponenti dell’eversione nera», utilizzato egli stesso in compiti di «natura non ortodossa» e di «intelligence».

Anni dopo, tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio, troviamo Bellini a Palermo. Durante una detenzione aveva conosciuto Antonino Gioè, uomo importante di Cosa nostra. Bellini fu contattato dal maresciallo Roberto Tempesta del nucleo tutela del patrimonio artistico dell’arma dei carabinieri, che lo incaricò di recuperare dei quadri rubati alla pinacoteca di Modena nel gennaio 1992. Almeno questa fu la versione data dell’inizio di una vicenda dai contorni oscuri perché Bellini era a Palermo già nel 1991 e aveva incontrato Gioè.

Bellini ricontattò Gioè pensando che potesse dargli utili informazioni. I due si videro parecchie volte ad Altofonte, vicino a Palermo. Si intrecciò tra loro un oscuro rapporto fatto di cose dette a metà, di sospetti, di equivoci. Bellini apparve come un uomo indecifrabile persino ai mafiosi con i quali parlava. Insomma, un buco nell’acqua, quei colloqui? Non proprio, perché Bellini fece riflettere i mafiosi sul fatto che lo stato avesse a cuore le opere d’arte più che le persone.

«Se una mattina vi svegliaste e non trovaste più la torre di Pisa?». Ne derivò un cambio di strategia che l’anno dopo le stragi portò Cosa nostra a colpire non più gli uomini ma le opere d’arte di cui è ricca l’Italia e a spostare l’area delle stragi a Roma, Firenze, Milano.

E allora il quadro si precisa meglio: Bellini è a Bologna nel 1980 ed è a Palermo nel 1992. È l’uomo-cerniera che mette in relazione e in rapporto lo stragismo fascista e lo stragismo mafioso.

Relazioni pericolose

Che sia così lo confermano altre circostanze: tra chi è stato condannato per la strage di Capaci c’è Pietro Rampulla, mafioso con un passato in Ordine nuovo. L’eversione fascista ha sempre avuto un feeling con i mafiosi.

Basti pensare alla vicenda di Pippo Calò, altro uomo importante di Cosa nostra condannato all’ergastolo per la strage di Natale del 1984. In quella vicenda furono coinvolti il deputato del Msi Massimo Abbatangelo che consegnò al camorrista Giuseppe Misso l’esplosivo che questi diede a Calò per la strage anche se, secondo i giudici fiorentini, quando consegnò l’esplosivo al boss della camorra, non poteva sapere l’uso che ne avrebbe fatto, e perciò fu assolto per la strage ma fu condannato per la detenzione di esplosivi.

Calò era in rapporti con gli uomini della banda della Magliana il cui campo gravitazionale comprendeva Massimo Carminati, “il nero” o “il cecato”, che aveva un lungo curriculum criminale e aveva fatto parte dei Nar. Paolo De Stefano, capo della ‘ndrangheta, che era affascinato dall’estrema destra e pronto a seguire un uomo come il principe nero Junio Valerio Borghese, il quale tentò un colpo di stato tra il 7 e l’8 dicembre 1970, poi revocato all’ultimo minuto; i terroristi neri Valerio Fioravanti e Francesca Mambro che sono stati condannati all’ergastolo per la strage di Bologna.

C’è da tenere conto di quanto ha detto Maurizio de Lucia, procuratore della Repubblica di Palermo: ancora non sappiamo «chi ha indicato i luoghi delle stragi del 1993 e le vere ragioni dell’accelerazione dell’attentato a Paolo Borsellino». Se si aggiunge che, nell’immediatezza del fatto, a via D’Amelio c’erano i servizi segreti che sono una presenza costante da piazza Fontana in poi e che ai servizi, nella persona di Bruno Contrada, si rivolse il procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra che indagava su Capaci e via D’Amelio, allora è evidente che c’è una storia oscura e opaca dell’Italia stragista a cavallo tra eversione e mafia che attende di essere raccontata e illuminata a giorno.

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