Stampa, media televisivi e social — che dovrebbero attenersi a codici di comportamento fondati sul rispetto della dignità femminile — finiscono spesso per diventare parte di un processo di esposizione pubblica che produce una seconda violenza
Perché le donne hanno paura di denunciare? Una ragazza di diciassette anni che ha denunciato il suo violentatore può essere oggetto di “indagini pubbliche”? Nei crimini commessi contro le donne, la vittimizzazione secondaria indica la sofferenza ulteriore che le vittime subiscono, specialmente dopo la denuncia, quando vengono esposte all’attenzione dei media o messe sotto pressione.
Le norme di tutela nazionali e internazionali impongono di contrastare questo fenomeno. Eppure, stampa, media televisivi e social — che dovrebbero attenersi a codici di comportamento fondati sul rispetto della dignità femminile — finiscono spesso per alimentarlo, diventando parte di un processo di esposizione pubblica che produce una seconda violenza.
Nei giorni scorsi, una giovane vittima di stupro è stata sottoposta a una gogna mediatica dalla quale avrebbe dovuto essere tutelata, per obbligo professionale, da chi ha firmato codici eticiprofessionali.
La sentenza del tribunale di Macerata — quella antecedente al ricorso poi conclusosi con una condanna a tre anni — ha dato origine ad articoli vagamente o apertamente offensivi. E questo nonostante sia chiaro che la verità processuale è quella sancita dal giudizio finale, non quella delle fasi dibattimentali, influenzate dagli interessi delle difese.
Nei processi, infatti, le vittime diventano “parte” solo se si costituiscono tali. Le vere parti in causa restano accusa e difesa, che godono entrambe di ampia libertà d’azione. Tutto questo è normale — finché la stampa non utilizza quelle dinamiche per delegittimare chi ha subito la violenza.
La spettacolarizzazione dei processi, poi, va oltre: non solo alimenta suggestioni a favore degli imputati, spesso sostenute persino da figure istituzionali, ma colpisce l’intero movimento femminista e antiviolenza.
Dietro la manipolazione delle informazioni che riguardano violenze e femminicidi si nasconde una logica di mercato: la scoperta di un’“area di consumo mediatico” in crescita. L’audience impone la ricerca di dettagli sempre più intimi, non per informare ma per suggestionare. Così si tenta di ricacciare il femminicidio in una zona d’ombra, riducendolo a un tema secondario nell’agenda politica.
Il movimento femminista contro la violenza maschile è una soggettività politica autonoma, che si fonda sulla salvaguardia reale delle donne e delle vittime: un principio irrinunciabile, non negoziabile e non riducibile a logiche di consenso.
Nell’interesse della giustizia e della civiltà, va rivendicato un dovere etico e pubblico: quello di garantire un’informazione libera e responsabile, capace di restituire il senso stesso dello Stato di diritto, fondato anche sulla distinzione netta tra vittime e carnefici.
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