Nella fabbrica dei veleni che ha fatto ammalare Brescia c’è un mistero che apre un nuovo fronte dell’inchiesta per disastro ambientale. All’interno dello stabilimento della chimica Caffaro, «un carcinoma al centro della città» secondo il procuratore di Brescia Francesco Prete, che ne ha chiesto e ottenuto il sequestro, è sparito nel nulla un notevole quantitativo di materiale pericolosissimo, il Fenclor o Apirolio, ovvero i cancerogeni Pcb (policlorobifenili) che la fabbrica ha prodotto su licenza di Monsanto fino al 1984, la cui tossicità è paragonabile a quella delle diossine. Sono inquinanti organici persistenti che una volta immessi nell’ambiente non si degradano e si accumulano negli ecosistemi e negli organismi producendo danni a lungo termine.

La Caffaro li ha prodotti allo stato puro per oltre cinquant’anni, dal 1936 al 1984, scaricandone nelle rogge circa 150 tonnellate e contaminando in modo irrimediabile la falda acquifera, i terreni, la catena alimentare, i lavoratori e gli abitanti. Dal 2002 Sin «Brescia-Caffaro» è stato inserito dal ministero dell’Ambiente tra i siti inquinati di interesse nazionale, ma a distanza di quasi vent’anni la fabbrica è ancora lì con tutti i suoi veleni e nessun intervento è ancora stato realizzato.

I serbatoi di Pcb scomparsi

Le recenti inchieste giudiziarie hanno rivelato che l’inquinamento della Caffaro non è solo un fatto del passato. Oggi i magistrati contestano alla nuova Caffaro Brescia, subentrata nel 2011 per produrre ipoclorito di sodio in una porzione della vecchia fabbrica, di aver aggravato l’inquinamento storico sversando cromo esavalente nei terreni e nella falda e non garantendo l’efficacia del filtraggio dell’acqua, che viene scaricata nell’ambiente con concentrazioni di Pcb superiori del 500 per cento ai limiti fissati nell’autorizzazione. Ora il giallo della scomparsa di ulteriori quantitativi Pcb allo stato liquido rischia di aggravare un quadro già definito «drammatico» e «sconcertante» dalla magistratura.

Alcuni giorni fa i carabinieri forestali hanno riscontrato l’assenza dei composti chimici, oggi fuorilegge e da trattare come rifiuti pericolosi, nel magazzino «28» nel lato sud-est del sito industriale, proprio nel capannone dove un tempo venivano prodotti e dovevano essere stoccati. Interpellati da Domani i tecnici dell’Arpa, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, hanno confermato l’esistenza di «due serbatoi per Pcb liquidi» eredità della vecchia Caffaro Srl (ldi proprietà di Snia, entrambe messe in liquidazione tra il 2009 e il 2010), precisando che «le fideiussioni non sono mai state svincolate» anche se «lo stoccaggio e i contenitori in acciaio non ci sono più». Nell’ipotesi in cui siano stati regolarmente smaltiti, insomma, affrontando costi ingenti, nessuno avrebbe poi chiesto di recuperare la cifra depositata come garanzia.

Due tonnellate di Pcb e peci

Sulla scomparsa dei Pcb gli inquirenti e l’Arpa mantengono il più stretto riserbo. Domani ha potuto comunque ricostruire la quantità di veleni stoccata: si trattava di «due serbatoi di un metro cubo per Pcb liquidi e un metro cubo per residui solidi», rende noto una fonte qualificata che chiede l’anonimato. In totale all’incirca due tonnellate di Pcb allo stato liquido e di peci di Fenclor conservate in contenitori d’acciaio. Alcune foto risalenti all’estate del 2012, che pubblichiamo, mostrano l’ingresso del deposito con l’indicazione della presenza dei Pcb e gli estremi dell’autorizzazione provinciale, valida fino al mese di «aprile 2007».

Oggi il «magazzino 28» è vuoto e dello stoccaggio non c’è traccia nella «relazione tecnica di decommissioning» elaborata dalla statunitense Aecom per conto del commissario straordinario per la bonifica del sito in carica dal 2015, Roberto Moreni. Che a Domani precisa: «Non ne so nulla, questo materiale non c’è nel piano di caratterizzazione. È stato fatto un censimento di tutti gli edifici, degli impianti e anche dei rifiuti, e anche nei rifiuti considerati pericolosi, che rimuoverà il Comune di Brescia, non c’è niente del genere».

Foto di Andrea Tornago

Sulle tracce dei veleni

Se l’impianto che produceva il Pcb è stato smantellato dopo il 1984, e i residui smaltiti in un inceneritore all’estero, perché nello stabilimento erano ancora presenti i policlorobifenili? Ettore Brunelli, assessore comunale all’ecologia dei Verdi nella giunta di centrosinistra dell’ex sindaco Paolo Corsini, la Caffaro la conosce molto bene: «Ho seguito lo smantellamento del reattore del Pcb, che è avvenuto già nella prima metà degli anni ’80. Nonostante questo nella Caffaro c’era comunque del Pcb, perché l’azienda per un certo periodo, per non perdere il mercato, ritirava il Pcb esausto e lo sostituiva nei trasformatori con altro olio dielettrico non contaminato. Il Pcb lo mandava in Francia in un inceneritore».

Ma quando la fabbrica è fallita nel 2009 qualcuno ha controllato che cosa era presente nello stabilimento? «Me lo sto chiedendo in questi giorni - prosegue Brunelli -: è possibile che quando è fallita la fabbrica è rimasta lì così? Che nessuna autorità sia andata a fare un censimento? Tra l’altro c’erano lavoratori che sapevano esattamente cosa c’era nei vari serbatoi». Anna Seniga ha lavorato nella vecchia Caffaro fino al 2009 ed era componente del consiglio di fabbrica: «La Caffaro non ritirava i trasformatori - precisa - però ricordo che per un paio d’anni ritirava il Pcb per rigenerarlo, su richiesta della regione Lombardia, anche se pure questa attività è stata chiusa nel 1984. Ricordo quel deposito che conteneva Pcb ma è sempre stato gestito da persone di fiducia della proprietà, erano cose molto vecchie che non riuscivano a smaltire. Io ero responsabile della logistica e avevo le chiavi di tutto lo stabilimento, tranne che di quel magazzino».

Oggi i dipendenti della nuova Caffaro Brescia, che in alcuni casi erano presenti anche fin dai primi anni Duemila, non possono parlare di quanto accaduto con la gestione precedente. E lo stesso direttore dello stabilimento, Alessandro Francesconi, contattato da Domani tramite il suo legale, non può intervenire: è stato sospeso dal Gip in occasione del sequestro della fabbrica lo scorso 9 febbraio.

Foto di Andrea Tornago

L’inquinamento si è aggravato

Negli ultimi anni l’inquinamento provocato dalla Caffaro si è aggravato, secondo il procuratore aggiunto di Brescia Silvio Bonfigli e il sostituto Donato Greco. Nel sito industriale opera dal 2011 una nuova Caffaro, che ha acquistato dal liquidatore di Snia Marco Cappelletto gli impianti produttivi e affittato le aree con l’impegno di mantenere sempre attiva la barriera idraulica: un imponente sistema di pompaggio delle acque sotterranee costituito da sette pozzi in grado di emungere fino a 13 milioni di tonnellate di acqua all’anno (un’operazione che costa poco meno di un milione di euro) per mantenere basso il livello della falda acquifera e impedire che disciolga i veleni di cui è impregnato il terreno sotto alla fabbrica.

Ma il sistema di pompaggio e filtraggio della barriera non è efficiente, come segnalato dall’Arpa almeno dal 2015, e l’inquinamento si è propagato fino a 22 chilometri di distanza dal sito. Per questo i vertici di Caffaro Brescia sono indagati per disastro ambientale e scarico di sostanze pericolose. Non solo, l’inquinamento per i pm riguarderebbe anche la gestione dell’impianto cloro-soda, sede della produzione attiva: nel reparto clorato sono stati rinvenuti «quattro grossi serbatoi dismessi in stato di totale degrado, contenenti bicromato di sodio e cromo esavalente che fuoriuscivano e percolavano» in parte «raccolti all’interno di alcune vasche artigianali, non adeguatamente rivestite», si legge nell’ordinanza del Gip di Brescia, Alessandra Sabatucci. Che non fa sconti nemmeno al commissario straordinario Moreni: «A distanza di cinque anni dalla nomina di Moreni - prosegue il giudice - a dispetto dello stanziamento da parte dello Stato di più di quattordici milioni di euro per la bonifica del sito, nulla ancora è stato fatto, compreso lo smantellamento degli impianti dismessi e ancora inquinanti».

La vecchia fabbrica in abbandono

Nel luglio del 2019 l’Arpa è entrata nello stabilimento Caffaro per verificare la sorgente della contaminazione delle acque sotterranee. Il quadro delineato dai tecnici dell’agenzia nell’impianto cloro-soda è agghiacciante: «Erano ancora presenti 21 celle elettrolitiche e 21 disamalgatori non ancora svuotati dall’amalgama di mercurio», oltre ad «artigianali sacchetti di plastica collocati al di sotto di tali tubazioni per il recupero, ovviamente inefficiente, delle perdite di mercurio» presente anche «in grandi quantità sparso per il pavimento».

Nell’ottobre del 2019 la Provincia di Brescia sospende l’autorizzazione ambientale della nuova Caffaro, a cui resta però l’obbligo di continuare a emungere l’acqua della falda per evitare un ulteriore disastro ambientale. Ma secondo il gip, «la gestione di Caffaro Brescia Srl ha gravemente e negativamente inciso sull’ambiente» per per trascurato «sia l’obbligo di contenere il precedente disastro ambientale che l’obbligo di non aggravarlo». Lasciare un sito industriale di quella pericolosità e complessità in gran parte incustodito forse non è stata una buona idea. In attesa che possa partire una messa in sicurezza e una parziale «bonifica» della fabbrica, in un quadro di estrema gravità data dall’inquinamento da Cromo esavalente, tetracloruro di carbonio e Pcb che derivano dalle acque di scarico, resta da sciogliere il mistero dei Pcb scomparsi.

A differenza dei veleni che derivano dall’acqua estratta dalla barriera idraulica, le due tonnellate di Pcb liquidi e solidi sono prodotti chimici allo stato puro e per questo impensieriscono gli investigatori dell’Arpa e dei carabinieri forestali. Che ora si trovano di fronte a un’inchiesta nell’inchiesta.

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La chimica Caffaro si insedia a Brescia agli inizi del Novecento. È responsabile dell’inquinamento storico del sito, inserito nei siti inquinati di interesse nazionale dal 2002. Dopo vari passaggi di proprietà Caffaro si fonde per incorporazione con Snia nel 2000. Le indagini penali sul vecchio inquinamento iniziano nel 2001 per disastro innominato, adulterazione e avvelenamento delle acque, lesioni, omicidio colposo, abuso e omissione d’atti d’ufficio, e vengono archiviate dal Gip nel 2010 che ha ritenuto prescritto il reato di disastro e infondati gli altri capi d’imputazione. Nel frattempo nel 2003 Snia effettua una scissione assegnando tutte le partecipazioni e le attività a Sorin, attiva nel comparto biomedicale, e lasciando a Snia le attività dismesse del settore chimico. Nel 2009 Caffaro in liquidazione viene dichiarata insolvente e nel 2010 la procedura viene estesa anche alla capogruppo Snia. Nel 2011 il gruppo Todisco acquisisce gli impianti produttivi dal liquidatore di Caffaro e costituisce la New Co Brescia, poi Caffaro Brescia, che produce ipoclorito di sodio. Ha l’obbligo di mantenere in sicurezza il vecchio sito industriale. Ma nel 2020 l’Aia della nuova Caffaro Brescia viene sospesa per violazioni. I vertici di Caffaro Brescia vengono indagati per inquinamento ambientale e gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi, scarico di sostanze pericolose e disastro ambientale e per il mancato smaltimento dei Pcb nei vecchi trasformatori della fabbrica.

Foto di Andrea Tornago

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