C’è un vento di ribellione che spira leggero sul Giro d’Italia numero 108, in partenza dall’Albania per approdare a Roma il primo giugno. Per adesso è appena una brezza, che però rinfresca e rincuora in un periodo di dittatura. A vincere la corsa potrebbe essere Juan Ayuso: ha 22 anni, al collo ha la medaglia d'oro del Sacro Cuore di Gesù che gli hanno regalato i nonni, porta ancora i segni dell’acne sul viso ma ha molto chiara la sua idea di futuro.

Vuole diventare il corridore migliore del mondo. C’è soltanto un problema: il corridore migliore del mondo esiste già, è addirittura un suo compagno di squadra e ha appena quattro anni più di lui. Gli altri del gruppo sembrano essersi ormai arresi al potere assoluto di Tadej Pogacar, lo sloveno che vince i grandi giri (3 Tour de France e un Giro d’Italia finora) e le classiche più importanti del calendario (ha già 9 Monumento e un Mondiale, più tutto il resto).

Le voci in gruppo dicono che arrivare secondi ormai vale come una vittoria, a un passo c’è la rassegnazione. Dopo la Liegi-Bastogne-Liegi, l’ultima Monumento, l’irlandese Ben Healy, che era arrivato terzo, si è avvicinato al vincitore Pogacar ed è andato al punto. «Scusa, quando ti ritiri?». Una battuta che nasconde una realtà complicata da accettare: se sei contemporaneo di un campione epocale, le tue occasioni di vittoria diventano inevitabilmente più rade. Aspetti che lui non sia al via o, appunto, che si stanchi di vincere e smetta. Ma in questo periodo di assolutismo il destino ha scartato di lato e ci ha inviato Juan Ayuso.

Chi è 

È nato a Barcellona un anno dopo che gli aerei si erano schiantati sulle Torri Gemelle. La Spagna aveva appena lasciato la peseta per l’euro. Juan era il secondo figlio di Javier e Susana, economisti entrambi. Aveva due anni quando la famiglia si trasferì ad Atlanta, la città della Coca-Cola, che otto anni prima aveva ospitato le Olimpiadi del centenario. «Della Georgia ricordo poco: la casa, la strada dove giocavo. La cosa migliore è stata imparare l’inglese».

Quattro anni dopo gli Ayuso rientrarono in Spagna, e Juan cominciò a giocare a calcio, come sperava suo padre. Ma la distanza tra realtà e fantasia in quel caso era abissale: voleva diventare il nuovo Messi, si ritrovò arretrato a terzino destro nel CD Canillas. Quando la famiglia si spostò nuovamente, a Jávea, nella zona di Valencia, Juan cominciò a seguire il suo amico Mateo in bicicletta e cambiò obiettivo: voleva sempre diventare il migliore del mondo, ma nel ciclismo.

Sostituì i poster in camera, sopra il letto apparve Alberto Contador. Juan cominciò a studiare: non soltanto le materie del collegio britannico a cui lo avevano iscritto i suoi per non fargli perdere l’inglese imparato negli Stati Uniti, ma tutto quello che serviva per diventare il migliore in bicicletta. Maria, sua sorella, giocava a basket, adesso vive a Londra e lavora alla JP Morgan.

L’unico che non ha seguito le orme degli altri Ayuso è Juan, il riottoso. Un riottoso singolare, che nasconde l’indole ribelle sotto una disciplina ferrea e un apprendimento costante. Il general manager della UAE, il basco Matxin, che ha lavorato in passato con Fabian Cancellara e Oscar Freire, incontrò per la prima volta Ayuso quando aveva 15 anni. «Non fu solo il suo talento a impressionarmi, ma anche la sua maturità e la sua ambizione, che non nasconde. Non è arroganza, è consapevolezza».

Quello che Matxin non dice è che si trovò di fronte un ragazzo che aveva barattato l’adolescenza con un controllo assoluto e regole monastiche. «Non sono mai uscito la sera con i miei amici». Padroneggiava la nutrizione come un professionista, si allenava seguendo le tabelle preparate dal papà esperto di numeri, e andava a letto a presto. Unico sgarro, e chissà quando, era un piattino di crema catalana, ma poca.

Adesso, che lo ha messo sotto contratto fino al 2028, Matxin lo chiama semplicemente killer. José Antonio Mantilla, che lo ha avuto nella sua squadra giovanile in Cantabria, la stessa del giovane Freire, di Heras e di Ventoso, ricorda che «era una meraviglia fisica, molto competitivo e all'avanguardia per la sua età. Si interessava di meccanica, fisiologia, potenza. Ottimo studente, era un modello per i suoi compagni di classe. Vinceva con una facilità sorprendente. E tutti cercavano di imitarlo». Mentre gli spagnoli si interrogano se somigli più a Contador o a Indurain, lui si chiede soltanto cosa può fare per migliorare ancora.

Come corre

Nello stile è l’opposto di Contador: in salita rimane seduto, attacca da lontano, va forte a cronometro ed è veloce allo sprint. Fisicamente ha spalle larghe che lo rendono più simile a un uomo da classiche come Mathieu van der Poel che a Pogacar. È alto uno e ottantatré ma pesa appena 65 chili. Una genetica toccata dalla bacchetta magica non basta.

«I geni devono essere stimolati, e Ayuso sa come farlo con l'esercizio fisico e abitudini positive. Sa come premere il tasto giusto», racconta un altro basco, Íñigo San Millán, fisiologo, professore all'Università del Colorado. Prima seguiva Pogacar, ora allena il ragazzo che vuole superarlo. Iñigo monitora quotidianamente l'allenamento e scambia informazioni con il nutrizionista Gorka Prieto, altro personaggio chiave nella costruzione della macchina perfetta.

«Juan conosce nutrizione, biomeccanica, fisiologia, glicogeno, lattato, watt, frequenza cardiaca». Un’attitudine che rompe di netto con la tradizione: i corridori di una volta non erano interessati a questo tipo di argomenti, si limitavano a fare quello che gli dicevano preparatori e squadre, senza approfondire. Rompe anche con l’idea romantica del ciclismo, secondo la quale l'intuizione e l’istinto dovrebbero vincere sui dati. Ayuso è una macchina perfetta: metodico, pedissequo, disciplinato. Registra ogni dato, dai watt al sonno all’alimentazione.

«Fino all'anno scorso, era un po' ossessivo. Mi chiamava continuamente per chiedermi qualsiasi cosa, anche quando gli davo dei giorni di riposo. Sembra un trentenne», conclude San Millán, che scambia costantemente informazioni con lo psicologo Pablo Enríquez, un altro anello fondamentale nella catena.

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Lui e Pogacar

Quattro anni fa la UAE non aveva ancora una squadra di sviluppo e Matxin propose alla Colpack di covare per una stagione il talento di Ayuso, prima del passaggio tra i professionisti. Juan venne a vivere a Villa d’Almè, vicino a Bergamo. Arrivò un giorno di gennaio, pioveva. Uscì lo stesso perché l’indomani c’era la presentazione della squadra, al direttore sportivo Gianluca Valoti spiegò che non voleva perdere due giornate di fila di allenamento. Quell’anno dominò il Giro Under 23 e costrinse tutta la squadra a cambiare le abitudini: cena tra le 19 e le 19.30, perché non voleva andare a dormire dopo le 21.30. A fare il capitano non ha dovuto imparare: all’ultima Tirreno-

Adriatico, che ha vinto, campioni come Rafa Majka e Adam Yates non hanno avuto problemi a fargli da gregari. Ayuso è un curioso miscuglio di determinazione, ambizione e calma.

C’è soltanto qualcosa che può farlo deragliare, ed è quando vede qualcuno che va più forte di lui. Al Tour dell’anno scorso la UAE lo mise nella squadra che doveva portare Pogacar in maglia gialla fino al gran finale di Nizza, ma sul Galibier Ayuso lasciò Almeida a tirare e in certi tratti si mise addirittura a ruota dello sloveno, rompendo le gerarchie e gli equilibri e guadagnandosi la diffidenza del numero uno del mondo. Dopo un fuori stagione burrascoso, in cui Ayuso ha trattato con altre squadre, si è arrivati a una tregua: corre ancora per la UAE, ma viene dirottato dove Pogacar non c’è. Cominciamo dal Giro d’Italia, e vediamo se quel vento ribelle sarà capace di trasformarsi in bufera.

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