«Chi porta la divisa è sottoposto a procedimenti disciplinari o ancor peggio giudiziari semplicemente perché ha esercitato il suo ruolo di servitore dello stato. Sul quel segmento noi interverremo». Le parole sono di Galeazzo Bignami, viceministro alle Infrastrutture di Fratelli d’Italia, e sono state pronunciate qualche giorno fa durante il congresso del nuovo sindacato dei carabinieri che si è svolto a Ferrara.

Le parole del sottosegretario

Nello stesso intervento il sottosegretario ha anche riportato l’intenzione del governo di rivedere il reato di tortura che, in Italia, ha consentito in questi anni di processare gli infedeli servitori dello stato che hanno abusato della divisa e sono diventati protagonisti di pestaggi e violenze. 

Intervenire sul reato di tortura è una battaglia di Fratelli d’Italia e della Lega che lo hanno più volte promesso alle sigle sindacali di riferimento. Ma in che modo e perché Bignami vuole intervenire sul reato di tortura?  «Chi sbaglia deve pagare, ma la struttura della norma è eccessiva perché non immagina una reiterazione e sanziona pesantemente anche singoli abusi», dice Bignami.

Ma a quali casi faceva riferimento quando ha parlato di processi giudiziari a carico di chi ha servito lo stato? «Non mi riferivo a indagini per tortura, la mia frase si riferiva ad alcuni episodi nei quali gli agenti sono stati condannati nell’esercizio della loro attività. Così è successo a Bologna dove un poliziotto che, durante una carica, aveva dato una manganellata a un manifestante che ha perso un dente ha subìto una condanna di 16 mesi. Per me questo è inaccettabile, c’erano stati episodi di violenza da contenere, così c’è il rischio che diventi complicato per gli agenti fare il proprio mestiere», sostiene Bignami.

Torniamo alla possibile modifica del reato di tortura, la posizione del sottosegretario non è isolata nel governo, la necessità di un intervento è stata ribadita anche da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e deputato del partito di Giorgia Meloni. 

Il reato “blando”

Il reato di tortura nel nostro paese è stato introdotto nel 2017, a seguito di un dibattito parlamentare durato quattro anni. Il testo approvato era molto diverso rispetto a quello inizialmente presentato dal senatore democratico, Luigi Manconi. «Le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito».

«E anche un’altra incongruenza: la norma prevede perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima», diceva Manconi che aveva deciso, alla fine, di non votare il testo.

Una posizione, condivisa anche dalle associazioni Antigone e Amnesty, che raccontava il disappunto nei confronti di un testo a maglie molto larghe rispetto alle previsioni iniziali. Il reato 613 bis prevede pene da quattro a dieci anni ed è stato introdotto su spinta dell’Europa che, nel 2015, aveva condannato il nostro paese per le condotte tenute dalla polizia durante il G8 di Genova. L’Italia è stata condannata non solo per il massacro dei manifestanti nella scuola Diaz, ma anche perché priva del reato di tortura all’interno del codice penale.

La sentenza della Corte di Strasburgo era arrivata grazie al ricorso di Arnaldo Cestaro, uno degli 87 manifestanti massacrati e feriti - su 93 che furono arrestati - durante quella che la polizia aveva definito una “perquisizione ad iniziativa autonoma” finalizzata alla ricerca di armi e violenti, ma che si era presto trasformata in una carneficina.

Il pericolo di una revisione

«Uno strumento normativo, sebbene decisamente perfettibile, che sta dimostrando di avere comunque un’efficacia nel perseguire un crimine di Stato che in passato troppe volte è rimasto impunito», scrive Antigone nel suo ultimo rapporto. Le interpretazioni del reato da parte della corte di Cassazione non sono state restrittive e hanno, in questi anni, consentito la sua applicazione nonostante i dubbi iniziali. 

«La legge del 2017 ha finalmente consentito che si possa usare la parola ‘tortura’ nei nostri tribunali, così come ci richiedeva la comunità internazionale fin dal lontano 1984, quando l’Italia ha firmato la convenzione Onu contro la tortura. Non si tratta di un mero esercizio di stile: in questi primi anni di applicazione si sta avendo un impatto giurisprudenziale significativo. Vedremo nei prossimi anni che tipo di giurisprudenza si formerà attorno al reato, ma è sicuramente importante che finalmente la tortura abbia un riconoscimento nell’ordinamento italiano», spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone.

Come giudica Antigone la proposta di revisione annunciata? «Si rischia che le modifiche alla norma che criminalizza la tortura vengano fatte per neutralizzarne l’impatto. Sarebbe un errore culturale, giuridico e politico gravissimo. Il reato di tortura non è un reato contro le forze dell’ordine. Anzi: isolando i pochi poliziotti che abusano del proprio ruolo, protegge i tantissimi poliziotti onesti che lavorano nel solco dei valori costituzionali», conclude Marietti.

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