Le stanze sono sempre aperte ma lui non c’è più. Se n’è andato, piangendo, il 24 maggio. Proprio il giorno dopo il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Per un po’ è stato zitto, poi ha cominciato a spiegare sul suo profilo Facebook perché non poteva stare più lì, in quello che a Palermo tutti conoscono come “il bunkerino”, gli uffici dove hanno vissuto uno accanto all’altro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Locali blindati in un ammezzato buio del palazzo di Giustizia, il luogo dove è nato il maxi processo a Cosa nostra e tanto altro ancora.

Un museo che non è un museo

LaPresse

Le stanze sono sempre aperte ma Giovanni Paparcuri, “papa” lo chiamava Falcone, ha abbandonato quella che era la sua “creatura”, un museo che non è solo un museo, è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze, i soprammobili e soprattutto il respiro di quella Palermo anni Ottanta tramandata dalla memoria di chi con i due giudici ha diviso la sua esistenza nella stagione siciliana più cupa.

Alle 23 e 39 dello scorso cinque settembre Giovanni Paparcuri ha comunicato con un post di avere chiuso la pagina “Museo Falcone-Borsellino”, annunciando spiegazioni in merito per i giorni successivi. Che sono puntualmente arrivate. Messaggi diretti e altri più obliqui, comunque tutti poco lusinghieri per un’antimafia ufficiale che - a suo dire - l’ha lentamente e inesorabilmente emarginato.

La polemica con i magistrati

Nella sostanza “papa”, che “il bunkerino” l’ha fatto nascere, dopo sei anni e poco più di 30mila visitatori provenienti da ogni angolo d’Italia, lamenta di sentirsi lì dentro quasi un ospite. A volte anche mal sopportato, bersaglio di dicerie, vittima di un ingranaggio burocratico che mortifica il suo lavoro di testimone oculare in quella stagione. Ce l’ha con l’Associazione nazionale magistrati di Palermo, che è la “padrona” di casa con la presidenza della corte di appello. E ce l’ha pure con la fondazione Progetto Legalità che gestisce di fatto - e su delega dell’Anm - il museo. Abbiamo fatto domande a Paparcuri e naturalmente anche ai responsabili dell’associazione magistrati e della fondazione per ascoltare ogni versione sulla vicenda, ma c’è qualcosa che va oltre le presunte ragioni e i presunti torti delle parti, qualcosa che ha a che fare con Palermo e i suoi simboli. Soprattutto in un’estate come questa dove, proprio a Palermo, avvenimenti politici e sociali hanno travolto e stravolto quell’altra città che faceva resistenza contro un ritorno del passato

La convinzione che ci siamo fatti: probabilmente è stato sottovalutato il significato più profondo di “papa” fra quelle stanze, perché perdere lui è come perdere frammenti di memoria, “il bunkerino” non è certo una sua proprietà privata ma “il bunkerino” senza Giovanni Paparcuri diventerà inevitabilmente qualcosa di diverso, di scolorito, dove le “ricostruzioni” prenderanno il sopravvento sulle emozioni, dove si disperderà un sapere che non si può trovare in un documento ma solo in un cuore.

È tutto scritto nella storia di Giovanni. Nel 1983 è l’autista di Falcone ma il 29 luglio il giudice è in Thailandia per una rogatoria e lui, quella mattina, guida l’auto del consigliere Rocco Chinnici. C’è l’attentato, Chinnici muore, muoiono due carabinieri e anche il portiere dello stabile dove abita il consigliere. Giovanni si salva, è un miracolo.

La fiducia di Falcone

Sergio Mattarella durante una commemorazione delle stragi (Foto LaPresse - Guglielmo Mangiapane 23/05/17)

Quando torna in tribunale non può più fare l’autista, per il ministero non è più “idoneo”. Così inizia la sua seconda vita. S’inventa un nuovo lavoro, nei corridoi del palazzo di Giustizia sono ammassati scatoloni con i primi computer. Nessuno li sa usare. È Paparcuri che scopre il suo talento informatico e contagia subito con la sua passione Giovanni Falcone. È lui che archivia tutte le delicate informazioni del maxi processo, ogni segreto passa davanti ai suoi occhi. Falcone si fida ciecamente. Di lui, delle altre tre segretarie che sono nel “bunkerino”, del maresciallo della guardia di finanza Angelo Crispino che sta dietro una sgangherata porta di legno. Ci sono i giudici, ma in silenzio ci sono anche loro, la squadra del pool.

Poi arriva il 1992. A Capaci salta in aria Giovanni Falcone, saltano in aria tre poliziotti, se ne va anche Francesca Morvillo. Si salva ancora solo l’autista Giuseppe Costanza. Giovanni e Giuseppe hanno lo stesso destino. Anche Giuseppe non può più guidare le auto per le ferite riportate. Per un quarto di secolo sono state due ombre, mai invitati alle celebrazioni, mai ricordati. La solitudine dei sopravvissuti. I due, Giovanni e Giuseppe, ogni tanto si ritrovano a parlare della sorte avuta e del numero nove che li ha segnati. Nove gli anni d’età che separano uno dall’altro, nove gli anni che dividono l’attentato di Chinnici da quello di Capaci, nove gli anni di differenza d’età anche delle rispettive mogli, nate comunque nello stesso mese e nello stesso giorno.

Nel 2016 Paparcuri decide di far rivivere il “bunkerino”. Compra a sue spese le macchine per scrivere dei due giudici, raccoglie i biglietti e le carte che Giovanni Falcone gli aveva consegnato, nei sotterranei del tribunale va alla ricerca delle scrivanie e degli armadi che in quei primi anni Ottanta arredavano le stanze dei magistrati del pool.

I racconti sui giudici

Così un ammezzato buio e dimenticato torna com’era. È Giovanni Paparcuri il custode e la guida. Un successo clamoroso. Scolaresche, famiglie, poliziotti, magistrati, giornalisti, folle di semplici curiosi. E “papa” ad aprire e chiudere il museo che non è un museo, a descrivere le lunghe giornate di Falcone e Borsellino fra un interrogatorio e l’altro, a ricordare le loro abitudini, le loro speranze e le loro paure. Tutto in maniera molto informale.

Troppo, per qualcuno che - pare - non abbia gradito la spontaneità di Giovanni in più occasioni. Come quando rende pubblico un messaggio d’amore di Francesca Morvillo a suo marito Falcone. Scoppia un putiferio.

Lo ricorda nei suoi post su Facebook di questi giorni: «È da meschini scrivere cose fantasiose su questo biglietto, e andare in giro a fare i poeti e/o a ergersi quali conoscitori di una storia mai vissuta. Dovete scrivere invece quanto è stata scellerata la scelta di separarli, dovete scrivere chi porta ogni venerdì dei fiori freschi alla signora esiliata al cimitero dei Rotoli. Ma voi ci siete mai stati?». Il riferimento è a Maria Falcone e alla scelta di trasferire le spoglie del fratello nella basilica di san Domenico, il pantheon di Palermo. La moglie Francesca l’hanno lasciata sola in una tomba lontana.

Le incomprensioni e gli sfoghi

Genuinità e ufficialità, qualche incomprensione quotidiana, un protocollo delle visite che Giovanni non ha mai accettato volentieri. Uno degli ultimi sfoghi di “papa”: «Mettere in giro la voce che io rivendicavo la proprietà del bunkerino, oltre ad essere odioso è infantile. Altresì è come sminuire il motivo per il quale me ne sono andato, il motivo lo sapete benissimo qual è, ma non avete mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ma mandavate a farlo il controllore che mi avete messo alle costole, dicendomi semplicemente che di cose personali non ne dovevo parlare. Però una cosa voglio dirvela, io ho sempre parlato a titolo personale, se vi sentivate a disagio o temevate che a qualcuno dava fastidio potevate dirmelo». E ancora: «Vi risulta che quando cominciavo a parlare con i visitatori ho sempre detto grazie all’Anm? E guai se qualche volta non pronunciavo queste parole magiche. È vero che il controllore stava davanti fino a quanto non pronunciavo le paroline e poi andava via?».

L’associazione magistrati e la fondazione sono rimasti spiazzati. In una nota prima hanno ringraziato Paparcuri, poi «registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo», poi ancora invitato a evitare «inopportune polemiche». Ci dice oggi Clelia Maltese, la presidente dell’Anm distrettuale: «Nessuno ha mai messo in dubbio in Giovanni Paparcuri la forza del testimone ma a noi interessa che il museo continui la sua attività. Lui è un valore aggiunto ma il museo non verrà certo chiuso». L’appello del presidente della fondazione, Leonardo Agueci, che fino a qualche anno fa è stato procuratore aggiunto a Palermo: «Qualunque siano i problemi noi vogliamo superarli, abbiamo il dovere di conservare la memoria che è superiore a qualsiasi altra cosa». Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Si parla di un incontro di chiarimento, però si parla anche di avvocati e cause legali. Brutti tempi per Palermo.

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