Finora aveva preso tempo. Ma adesso il giudice per le indagini preliminari (gip) di Roma ha disposto l’archiviazione dell’indagine relativa alla morte di Mario Paciolla, avvenuta mentre il 33enne napoletano operava per le Nazioni Unite nella missione di pace in Colombia.

Quando il 15 luglio 2020 il suo cadavere è stato ritrovato nel suo appartamento a San Vicente del Caguan, con l’apparenza di un corpo impiccato, ma anche tagli, e sangue, l’Onu ha affidato la prima autopsia al medico della sua missione, per poi derubricare il caso come suicidio. Ma a Roma è stata disposta una seconda autopsia, ed era stata avviata l’indagine della procura.

L’archiviazione

Nell’autunno del 2022, dopo oltre due anni di silenzi, resi ancor più impenetrabili dalla scarsa collaborazione dell’Onu e dalla debole azione del governo italiano, la procura di Roma aveva concluso le sue indagini nel modo più indigeribile per Anna Motta e Giuseppe Paciolla: aveva chiesto l’archiviazione del caso ed emesso un responso che accreditava la versione del suicidio.

La famiglia si era detta «sconcertata» e aveva condotto una battaglia legale per impedire l’archiviazione, mentre svariate inchieste giornalistiche avevano allertato sulle numerose incongruenze e quindi sui forti dubbi circa l’ipotesi del suicidio. Ma per ben due volte i magistrati romani hanno chiesto l’archiviazione del caso.

La prima volta, il gip aveva disposto ulteriori accertamenti. La seconda ha accolto la richiesta. 

I Paciolla e la lotta per la verità 

«Prendiamo atto con dolore e amarezza della decisione del tribunale di Roma di archiviare l'omicidio di nostro figlio Mario», scrivono in una nota la madre Anna e il papà, Giuseppe Paciolla, assieme alle figlie Raffaella e Paola e alle avvocate Emanuela Motta e Alessandra Ballerini. «Noi sappiamo non solo con le certezze del nostro cuore, ma con le evidenze della ragione frutto di anni di investigazioni e perizie, che Mario non si è tolto la vita, ma è stato ucciso perché aveva fatto troppo bene il suo lavoro umanitario in un contesto difficilissimo e pericoloso in cui evidentemente non bisognava fidarsi di nessuno. Sappiamo che questa è solo una tappa, per quanto ardua e oltraggiosa, del nostro percorso di verità e giustizia. Continueremo a lottare finché non otterremo una verità processuale e non sarà restituita dignità a nostro figlio».

«Utilizziamo con rammarico e sofferenza il verbo "lottare”», conclude la famiglia di Mario Paciolla: «Mai avremmo pensato di dover portare avanti una battaglia per avere una giustizia che dovrebbe spettarci di diritto. Sappiamo però che non siamo e non resteremo mai soli».

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