Il siderurgico di Taranto «è stato gestito in maniera sciagurata e criminale. Il gruppo Riva non ha proceduto a sostanziali interventi di risanamento dell’industria che aveva acquistato, ma l’ha sfruttata al massimo della sua capacità produttiva, molto produttiva ma altamente inquinante. Le difese ci hanno detto che lo stabilimento era un gioiello di tecnologia, quando invece gli impianti andavano rifatti. Così a Taranto anziché chiudere le fonti inquinanti, abbiamo chiuso la gente in casa. Arpa Puglia ha accertato che Ilva gettava nell’ambiente 200 miliardi di nanogrammi di diossina all’anno. Lo spolverio dei parchi minerali era imponente, con conseguenze molto forti per la salute e la vita delle persone».

Il pubblico ministero di Taranto Mariano Buccoliero non ha certo misurato le parole nel corso della prima requisitoria – durata quasi 20 ore – con cui è partita la fase finale del processo Ambiente svenduto.

La discussione dei pubblici ministeri riprenderà l'8 febbraio per concludersi giovedì prossimo con le richieste di condanna per i 47 imputati.

Il danno e la beffa

Le lavorazioni di un’acciaieria a carbone come l’Ilva sono altamente inquinanti, per cui occorre rispettare regole, criteri e limiti. Secondo l’accusa questo non è accaduto, tanto è vero che il quartiere Tamburi è color ruggine come l’acciaieria che lo sovrasta.

Le polveri provenienti dallo stabilimento si depositano ovunque e penetrano nelle persone e negli animali. È dello stesso colore anche il tetto dei giganteschi capannoni che oggi coprono i parchi minerali, dove vengono stoccati i materiali da trasformare in acciaio.

06/11/2019 Taranto, Presidio permanente davanti alla direzione dello stabilimento Arcelor Mittal, ex Ilva. Nella foto un gruppo di ambientalisti

Al momento del sequestro dello stabilimento, nel luglio 2012, le coperture ancora non esistevano: a proteggere le case da quelle montagne di carbone e minerali – da cui, secondo le analisi consegnate allora al gip, si sollevavano ogni anno 750 tonnellate di polveri piene di piombo, ferro, vanadio, cadmio, zinco, nichel, arsenico, berillio, cromo e mercurio – c’erano solo le collinette artificiali costruite al tempo dell’Italsider statale.

Erano ecologiche solo di nome perché, hanno scoperto i carabinieri del Noe, «altro non sono che una enorme discarica abusiva di svariate tonnellate di rifiuti industriali derivanti dalle lavorazioni degli impianti del polo siderurgico quali loppa [un sottoprodotto del processo di produzione della ghisa, ndr], scorie d'altoforno e altro che, esposti all'azione degli agenti atmosferici, hanno riversato nei terreni e nell'ambiente circostante, sostanze altamente tossiche e cancerogene come diossine, furani, Pcb, idrocarburi e metalli vari». Oltre al danno, la beffa.

Cinque domande più una

La perizia chimica su cui poggia l’accusa  ̶  554 pagine firmate Sanna, Monguzzi, Santilli e Felici che il pm ha citato a più riprese nella sua requisitoria  ̶  doveva rispondere a sei domande del giudice delle indagini preliminari.

La quinta, relativa alle «situazioni di danno o di pericolo inaccettabili» eventualmente determinate dalle sostanze inquinanti, per le specifiche competenze richieste è divenuta oggetto della perizia medico-epidemiologica.

I periti sono stati chiamati a illustrarne criteri e risultati nel corso di sette udienze celebrate a cavallo tra il 2017 e il 2018 ([1], [2], [3], [4], [5], [6] e [7]).

Il primo quesito chiedeva «se dallo stabilimento Ilva spa si diffondano gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide (polveri ecc.), contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto e, eventualmente, di altri viciniori, con particolare, ma non esclusivo, riguardo a Benzo(a)pirene, Ipa [idrocarburi policiclici aromatici, ndr] di varia natura e composizione nonché diossine, Pcb, polveri di minerali ed altro»: i periti hanno concluso che le emissioni convogliate dello stabilimento rilasciavano “notevoli quantità di inquinanti”.

Affermativa anche la risposta alla seconda domanda: «Se i livelli di diossina e Pcb rinvenuti negli animali abbattuti, appartenenti alle persone offese indicate nell’ordinanza ammissiva dell’incidente probatorio del 27 ottobre 2010, e se i livelli di diossina  e Pcb accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto, siano riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto».

La firma dell’Ilva

Per effettuare le rilevazioni all’esterno, aveva spiegato il perito Monguzzi durante l’esame in aula, è stato posizionato un campionatore presso la scuola Deledda, che sorge a ridosso dello stabilimento, e l’Istituto Talassografico Cerruti, che si trova più lontano, vicino al ponte girevole: i valori della Deledda – definita da Buccoliero nella sua requisitoria “scuola della morte” – sono più alti. In generale, le rilevazioni di diossine, Pcb e Ipa, sono ritenute dai periti coerenti con l’ipotesi che la sorgente degli inquinanti sia l’Ilva: c’è una prevalenza di esacloro di benzofurani e di eptacloro, che sono “congeneri caratteristici delle produzione di diossine afferenti alle lavorazioni dell’Ilva”.

Anche i campionamenti di Topsoil [i primi 5-20 cm di suolo, ndr] e sugli aghi dei sempreverdi nei dintorni dello stabilimento hanno dato risultati simili.

Nel grasso dei fegati degli animali sono state trovate rispondenze con i furani e i congeneri Ecsa caratteristici delle emissioni diffuse di Ilva, e in 11 campioni analizzati su 16 la diossina riconducibile all’Ilva è superiore al Pcb. 

La musica non cambia nemmeno con le rilevazioni fatte presso le aziende agricole intorno allo stabilimento: Ipa e congeneri aumentano man mano che ci si avvicina all'acciaieria.

Un’altra costante è che le diossine rilevate sopravvento sono molto inferiori a quelle registrate sottovento, cioè dopo che il vento dominante ha attraversato la zona industriale. I campionamenti sono stati fatti con un’apparecchiatura capace di orientarsi secondo la direzione del vento.

In this picture taken Friday, Aug. 17, 2012, the ILVA steel plant is seen in Taranto, Italy. An Italian Cabinet official warns Monday, Aug. 13, 2012, a judge's decision to close the ILVA steel plant employing thousands on environmental grounds will cripple the government's industrial policy. The plant was ordered closed after health studies showed an elevated incidence of cancer in the area. The plant's operators say toxic fumes have already been reduced. The plant employs 12,000 and accounts for 75 percent of economic production in Taranto province. (AP Photo/Paola Barisani)

Il punto è tra i più contestati dalle difese: i periti avrebbero considerato le espressioni “zona industriale” e “Ilva” come sinonimi, mentre in quell’area di soggetti che inquinano ce ne sono diversi (Cementir, Appia Energy, Matra, Eni-Agip e altri): «È un vento selettivo», ha ironizzato l’avvocato dei Riva, «che quando attraversa la zona industriale si infila nell’Ilva, evitando le altre fabbriche!». Tuttavia i profili degli inquinanti, secondo la perizia, sono sovrapponibili a quelli dell’acciaieria.

Nuvole rosse

La risposta alla terza domanda, «se all’interno dello stabilimento Ilva siano osservate tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi», è stata negativa.

Per arrivare a questa conclusione, i periti hanno valutato per ogni area dello stabilimento - stoccaggio e ripresa materie prime, cokeria, agglomerato, altoforno, acciaieria, rivestimento tubi e lamiere - le emissioni diffuse, cioè quelle che si liberano in maniera incontrollata nell’atmosfera, e le emissioni fuggitive, derivanti da apparecchiature inadeguate o difettose che a loro volta producono la fuoriuscita di inquinanti.

Ne è un esempio il fenomeno dello slopping, da cui provengono le gigantesche nuvole rossastre, contenenti ossidi di ferro e polveri, tristemente note ai tarantini: quando, nel corso del processo di conversione della ghisa in acciaio, l’ossigeno reagisce con il carbonio, si producono elevate quantità di vapori che i sistemi di aspirazione, sottodimensionati, non riescono a intercettare. Il fenomeno peraltro ha continuato a verificarsi anche durante la gestione commissariale e dopo il passaggio ad ArcelorMittal.

Norme rispettate o no?

Il quarto quesito del magistrato chiedeva di accertare «se i valori attuali di emissione di diossine, Benzo(a)pirene ed Ipa di varia natura e composizione, Pcb, polveri minerali ed altre sostanze ritenute nocive per la salute di persone ed animali nonché dannose per cose e terreni (sì da alterarne struttura e possibilità di utilizzazione), siano conformi o meno alle disposizioni normative comunitarie, nazionali e regionali in vigore». In altri termini: fermo restando che un’acciaieria a carbone non emette vapori balsamici, gli inquinanti sono nei limiti o no?

Per rispondere, i periti avevano come parametri di riferimento l’Aia (autorizzazione integrata ambientale), per le autorizzazioni vigenti all’epoca per l’impianto, e il BREF [Best Available Techniques Reference Document] del 2011 per le comparazioni tecniche. 

Il BREF è un documento, definito a livello europeo da tutti i soggetti coinvolti in un determinato settore produttivo, che contiene la lista delle BAT (Best Available Tecniques), cioè delle migliori tecniche disponibili, “il meglio che è possibile fare” quanto a tecnologie e modalità di gestione di un impianto. Dal BREF derivano le "BAT conclusions": approvate sempre in sede Ue con una decisione, orientano prescrizioni e autorizzazioni dei paesi membri.

Secondo la perizia, i valori delle emissioni convogliate misurati dalla stessa Ilva nel 2010 erano conformi alle norme nazionali e regionali, quindi sia all’Aia del 2011 che alle autorizzazioni precedenti. Tuttavia, siccome le emissioni derivano da impianti dove sono svolte anche attività di recupero, mediante trattamenti termici, di materie prime secondarie, dal 1999 l’azienda avrebbe dovuto installare sistemi di controllo automatico in continuo dei parametri inquinanti (polvere totale, carbonio organico totale, cloruro di idrogeno, floruro di idrogeno, biossido di zolfo, monossido di carbonio), ma non lo ha fatto: di conseguenza è impossibile verificare il rispetto dei limiti e perciò le emissioni non possono essere considerate conformi. All’epoca dell’accertamento non risultavano in atto nemmeno le procedure operative previste dall’Aia 2011 per le emissioni non convogliate, né quelle stabilite per monitorare la combustione del gas inviato alle torce dello stabilimento. Risultavano invece nei limiti diossine e Pcb emesse dal camino E312 dell’agglomerato.

Processo a un modo di fare industria

I dati sono stati poi confrontati con le norme Ue, attraverso i parametri descritti nel BREF e nelle BAT Conclusions: è emerso che «nella maggioranza delle aree e/o delle fasi di processo, sono emesse quantità di inquinanti notevolmente superiori a quelle che sarebbero emesse in caso di adozione da parte di Ilva delle BAT con la performance migliore come stabilito dal BREF».

Ma attenzione: «I valori emissivi, anche se superiori a quelli minimi ricavati sulla base del BREF, sono però inferiori a quelli fissati nell’Aia», perché, aveva detto Santilli in aula, «i valori indicati nell’Aia erano normalmente più elevati rispetto a quelli indicati nel BREF».

Tuttavia secondo la direttiva europea «tutti i gestori di impianti dovevano adeguarsi entro quattro anni dalla pubblicazione formale delle BAT Conclusions [marzo 2012, ndr]. Quindi le nostre tabelle che davano questo tipo di confronto non possono essere utilizzate per dire che l’autorizzazione fosse illegittima».

I raffronti spiegano perché Ambiente svenduto è anche il processo a un modo di fare industria in Italia: secondo l’accusa, i Riva avrebbero giocato al ribasso su tutti i fronti, da una parte adoperandosi per ottenere dall’Aia un trattamento di favore (sarebbe stato questo uno degli scopi dell’associazione per delinquere contestata ai principali imputati), dall’altra limitandosi a fare sempre e comunque il minimo indispensabile.

Per questo quando il perito Santilli ha detto che «la realtà non era omogenea su tutte le aree [dello stabilimento], ma in alcune fasi, laddove le BAT erano state attuate, c’era una performance ottima. Quindi è raggiungibile l’obiettivo delle BAT», il pm Buccoliero aveva rincarato: «Era raggiungibile. E certo che era raggiungibile!».

Ora, in sede di requisitoria, è tornato sul punto dicendo che «l’Aia del 2011 ha aiutato l’impianto a sopravvivere, altrimenti sarebbe morto.

Chi doveva controllare non ha controllato, o ha controllato male, o è stato ingannato dalla totale falsificazione dell’autocontrollo del laboratorio di analisi dell’Ilva. Che gliene frega all’imprenditore di un intervento ambientale che non porta un beneficio produttivo? Non lo fa, perché costa troppo».

Non a caso le conclusioni della perizia, in risposta all’ultima domanda del gip (“quali siano le misure tecniche necessarie per eliminare la situazione di pericolo, anche in relazione ai tempi di attuazione delle stesse e alla loro eventuale drasticità”) contenevano una corposa serie di indicazioni sul da farsi.

“Giochi di prestigio”

Durante l’esame dei periti chimici, per stigmatizzare il comportamento dell’azienda il pm aveva insistito molto anche sulla differenza tra le stime delle emissioni convogliate comunicate da Ilva per l’istruttoria Aia del 2005 e quelle comunicate al registro Ines [Inventario nazionale delle Emissioni e delle loro Sorgenti] nello stesso anno: nel primo caso le emissioni di Ipa risultavano di una tonnellata, nel secondo di 22; per il monossido di azoto, in Aia erano indicate 2.222,15 tonnellate nell'anno, in Ines 4.293,7; il benzene per l’Aia era stato stimato in 13,7, mentre per l’Ines in 219,24. «Un gioco di prestigio, praticamente!», è stato il commento di Buccoliero. 

210 chili di veleni a testa

Sommando i dati contenuti nella perizia, per quanto riguarda le emissioni convogliate, nel 2010 dai camini dell’Ilva sono uscite 4.159 tonnellate di polveri, 11.056 di diossido di azoto, 11.343 di anidride solforosa, 7 di acido cloridrico, 1,3 di benzene e 338,5 chili di Ipa.

Le sostanze inquinanti stimate alle emissioni non convogliate sono quantificabili ogni anno in 2.148 tonnellate di polveri, 0,88 di Ipa, 15,4 di benzene, 130 di acido solfidrico, 64 di anidride solforosa e 467,7 di composti organici volatili.

A tutto questo vanno aggiunte 544 tonnellate annue di polveri dovute allo slopping. Secondo i calcoli di Peacelink, si tratta di «210 kg di emissioni inquinanti a testa ogni anno per ogni tarantino».

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