L’ex poliziotta viene ricevuta in via Bellerio da Matteo Salvini in persona. Lei racconta di Ong, di migranti, di «marocchini che mi stanno sulle palle», di trame da film. «Che merde», risponde il leader della Lega, che un anno dopo entrerà da ministro al Viminale. Floriana Ballestra, una carriera in polizia finita con il licenziamento per motivi disciplinari parla con Salvini che le passa il numero del giornalista Mediaset Paolo Del Debbio, «chiamalo», le dice. E così fa, poche ore dopo. L’ex poliziotta di Imperia, spera in un lavoro nuovo, grazie all’interessamento di Salvini. Magari in politica, magari – racconta alla zia in una telefonata intercettata subito dopo l’incontro nella sede della Lega – da consigliere comunale.

Il racconto dell’incontro tra una ex dipendente della società di sicurezza Imi e Salvini emerge oggi nel dettaglio dalle carte dell’inchiesta della Procura di Trapani contro le Ong. E aiuta a descrivere quello che è avvenuto nel mediterraneo centrale, tra la fine del 2016 e l’estate del 2017. Ex poliziotti cacciati dal corpo, ex ufficiali della Guardia costiera entrati nel business della sicurezza privata, dossier che viaggiano dalla Sicilia verso il servizi di sicurezza e verso le segreterie dei partiti. E’ la macchina della propaganda sovranista che si mette in moto, in attesa delle elezioni politiche del 2018.

Il link tra poliziotti cacciati e politica

L’inchiesta della procura di Trapani ha tante fasi. Parte quando Floriana Ballestra, la fan di Salvini, si presenta nell’ottobre del 2016 alla squadra mobile di Trapani per denunciare l’aggressione da parte di un collega dell’agenzia di security per la quale lavora.

Racconta di essere a bordo della nave affittata da Save The Children, Vos Hestia, contrattata dalla Imi di Cristian Ricci, e di aver avuto un brutto litigio con Lucio Montanino, poliziotto in pensione, in servizio come lei sull’imbarcazione. Ma racconta anche altro, racconta dei suoi sospetti sull’azione di alcune Ong in mare.

In quegli stessi giorni tre agenti di sicurezza privati della Imi (oltre alla Ballestra e a Montanino, un altro ex poliziotto cacciato dal corpo, Pietro Gallo) avevano appena inviato una sorta di dossier all’Aise prima e alla segreteria della Lega poi.

Da questo momento inizia la doppia storia dell’inchiesta: da una parte l’attività della magistratura che cerca di verificare le denunce della società di sicurezza, dall’altra un costante filo con la politica. Informazioni in cambio di lavoro.

Con un paradosso, ben noto fin dall’inizio agli inquirenti: buona parte dell’inchiesta giudiziaria si basa proprio sulle «prove» raccolte dall’agenzia di sicurezza privata. E sarà proprio l’Imi – per la quale hanno lavorato gli ex poliziotti pronti a raccontare ai politici le presunte trame delle Ong – ad aiutare lo Sco per mandare a bordo della nave di Save The Children un agente sotto copertura.

Siamo nel maggio del 2017, quando l’indagine coordinata dalla procura di Trapani e condotta dallo Sco, dalla squadra mobile e dal Nis del comando generale della Guardia costiera è entrata nel vivo.

È una fase delicata, la Procura sta cercando di verificare quello che la Imi ha raccontato nelle denunce presentate alla squadra mobile. Pietro Gallo, intercettato da mesi, chiama la moglie. Il brogliaccio allegato agli atti è sintetico, ma contiene due passaggi importanti: «Gallo si raccomanda con la moglie di inviare il video che definisce sensibile ai servizi tramite la posta (…) Gallo le dice di guardarsi il video che le ha mandato, le dice che se vuole ne può parlare con Meloni (onorevole Giorgia Meloni, annotano gli investigatori, ndr) che ne può fare materiale per la campagna elettorale». Materiale sensibile, video in teoria così importanti da essere inviati all’intelligence, ma, nello stesso tempo, potenziale materiale di propaganda per il partito Fratelli d’Italia.

Non sappiamo se quel contatto con Giorgia Meloni si sia poi concretizzato. Ma la telefonata – finora inedita – è un tassello importante. Pietro Gallo la sua espulsione dalla Polizia non l’ha mai digerita. E nelle telefonate non nasconde la speranza che l’inchiesta di Trapani possa diventare la sua occasione di riscatto. Chissà, magari un posto nei servizi.

Mentre l’indagine è in corso, cerca continuamente di ritagliarsi un ruolo. Contatta un suo ex collega, un ispettore della Digos di Arezzo, chiede una mano per verificare numeri di telefono internazionali. Gli spiega che è roba grossa, «si era messo messo in contatto con Salvini, al quale personalmente mandava informazioni su quello che succede e quello ci ha fatto la campagna elettorale». Il suo comportamento diviene talmente sospetto da far scattare una perquisizione a sua carico dopo il sequestro della nave: gli investigatori temevano che potesse avere materiale mai fornito alla Procura di Trapani.

I destini incrociati nel Mediterraneo centrale

Berlino, primavera del 2015. Un gruppo di ragazzi che aveva appena finito il liceo decide di fare qualcosa. Ogni giorno sui giornali appaiono foto, testimonianze: migliaia di morti in mare, piccoli battelli di fortuna che affondano con bambini, donne, uomini stremati. Jakob Schoen e gli altri a 18 anni fondano la Ong Jugend Rettet, la «gioventù che salva». Il governo italiano di Matteo Renzi aveva appena deciso di fermare l’operazione Mare Nostrum, il dispositivo navale che interveniva direttamente nei salvataggi in mare nell’area del Mediterraneo centrale. Nelle acque davanti alla Libia si muore come non mai.

Jakob e gli altri aprono un crowdfunding e raccolgono 300 mila euro per comprare una vecchia imbarcazione, la Iuventa. La armano, contattano altri ragazzi esperti di marineria. Inizia così l’avventura di questa Ong tedesca.  Alla fine di ogni missione – racconta il film di Michele Cinque Iuventa - si riuniscono, discutono, facendosi sempre la stessa domanda: perché i governi non agiscono? Perché dobbiamo salvarli noi?

Nel 2016 le Ong che scendono in mare sono tante. Ci sono piccoli gruppi, come la Jugend Rettet, ma anche organizzazioni internazionali note, come Medici senza frontiere e Save The Children. Di fatto l’Italia affida a loro le operazioni di salvataggio nelle acque davanti alla Libia.

A pochi chilometri da La Spezia una piccola ditta di sicurezza sta cercando l’occasione giusta per crescere. Si occupa soprattutto di corsi di formazione, frequentati da ex militari e forze dell’ordine in cerca di occupazione nel settore privato. Si chiama Imi ed è stata fondata da Cristian Ricci, ex ufficiale della Guardia costiera. In passato aveva tentato la sorte con una società più grande in Slovenia, ma alla fine ha chiuso tutto e ha aperto la sua piccola ditta individuale nella Lunigiana.

C’è un contatto con un grosso armatore, la Vroom, che ha affittato una nave alla Ong Save The Children, per i soccorsi in mare. Cercano responsabili della sicurezza, per evitare rischi a bordo. Ricci firma il contratto e scorre la lista di chi aveva frequentato i suoi corsi. Ne seleziona tre: Ballestra, Gallo e Montanino. Poco importa se i primi due sono stati cacciati dalla polizia, in fondo il lavoro è semplice. A settembre si imbarcano.

Gli sguardi dei ragazzi della Jugend Rettet e dei quattro agenti di sicurezza privata si incrociano in mare. La Iuventa opera spesso insieme alla nave,  più grande, di Save The Children. Si crea, necessariamente, una sorta di coordinamento. Ma per i tre ex poliziotti è sospetto. Perché? Collaborano con i trafficanti, denunceranno; ma gli episodi che verranno contestati dalla Procura al momento del sequestro sono stati smontati pezzo dopo pezzo dall’inchiesta del gruppo Forensic Architecture dell’Università di Londra.

Caccia alle Ong

Quando sulla nave Iuventa sale una giovane freelance, per gli investigatori scatta l’allarme. Mettono il nome su Google e scoprono che ha partecipato alla produzione dei film Diaz e Acab. Insomma, ecco il complotto noglobal, meglio intercettare. Sono tantissimi i volontari della Ong che sono stati ascoltati per mesi durante l’inchiesta, perfino la giornalista Nancy Porsia, esperta di Libia, ascoltata anche quando parlava con il suo legale. L’obiettivo era uno solo: dimostrare la complicità tra chi salva le vite e i trafficanti, tra chi aiuta le vittime e i carnefici.

Una tesi che compare – nero su bianco – su una nota del ministero dell’Interno datata dicembre 2016, quando al Viminale c’era Marco Minniti: «Le Ong sono diventate una piattaforma in attesa dei gommoni provenienti dalla Libia (…) Tale modalità di pattugliamento potrebbe costituire un indice rivelatore di un preventivo accordo tra le organizzazioni criminali e l’equipaggio delle imbarcazioni». L’inchiesta era appena iniziata, ma l’obiettivo era già chiaro.

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