Trentuno anni, portoghese, attaccante, una delle giocatrici europee più apertamente schierate nelle battaglie sociali grazie all’esperienza fatta negli Stati Uniti. «In Europa c’è molta paura di “dare fastidio”, ci si aspetta che l’atleta “stia al suo posto”. Negli Usa esporsi è parte integrante della cultura sportiva. Da noi si fa polemica anche per una fascia arcobaleno al braccio. Mi è stato consigliato di evitare certi argomenti»
Dopo la partita dell’Italia contro il Portogallo all’Europeo appena terminato, la numero 10 azzurra Cristiana Girelli ha scambiato la maglia con la 10 avversaria: Jéssica Silva, attaccante, 31 anni, una carriera tra Europa e Stati Uniti. Su quell’Euro 2025 è calata l’ombra del razzismo per via della denuncia dell’inglese Jess Carter. «Ho un enorme rispetto per la nazionale inglese, si mettono in gioco, ispirano e guidano con l'esempio, dentro e fuori dal campo» dice Silva.
«Quello che è successo a Carter è disumano. Anch'io ho vissuto situazioni simili. Fa male, perché senti che c’è ancora chi ti guarda solo per il colore della tua pelle. Però credo nella forza dell’inclusione. Il cambiamento non consiste solo nel parlare, ma anche nell’agire. Non possiamo normalizzare il silenzio».
Prese di posizione così nette nello sport sono rare, per Silva è normale, la sua coscienza civile si è formata nel passaggio da posti diversi: «Negli Stati Uniti ho percepito un attivismo più radicato. Le atlete parlano, reclamano, protestano: è visto come qualcosa di naturale. In Europa c’è ancora molta paura di “dare fastidio”. Dipende dai Paesi, ma in generale ci si aspetta che l’atleta “stia al suo posto” e si preoccupi di “giocare a pallone”. Negli Usa parlare di uguaglianza, razzismo o diritti LGBT è parte integrante della cultura sportiva. In Europa si reagisce con polemica anche solo a un gesto semplice, come una fascia arcobaleno al braccio».
Intervenire
Esporsi su temi sociali comporta l’assunzione di un rischio. «È così. Alcune persone non mi considerano più allo stesso modo a causa delle mie opinioni, persino nel mio ambiente. Mi è stato detto, in conversazioni informali, che "è meglio evitare certi argomenti", mi è stato suggerito di non essere interventista. Ma io non voglio essere solo una giocatrice. Voglio essere Jéssica, più di Jéssica Silva. Voglio essere me stessa, una persona completa. Se taccio per paura, non sono fedele a me stessa. Naturalmente scelgo bene le mie parole, ma non smetto di parlare».
Lo scorso 9 giugno, quando la cronaca parlava della Freedom Flotilla sequestrata da Israele, Silva su Instagram pubblicava la foto di una maglia con la scritta “I see humans, but no humanity” sui pantaloncini della divisa portoghese. «La frase sulla maglietta è arrivata in un momento di stanchezza emotiva. Avevo bisogno di dire qualcosa, penso che sempre più persone si aspettino che atleti e atlete abbiano una voce attiva. Siamo privilegiati ad avere una piattaforma, perché non usarla?»
La 10 lusitana non ha nessun problema a esprimersi: «Capisco che non tutti e tutte si sentano a proprio agio o al sicuro nell'esporsi. Ci sono carriere, contratti, contesti familiari e molte altre situazioni che possono influenzare la scelta. Ma ci sono anche persone che si nascondono perché è più comodo».
Testimoniare
Il calcio femminile in Portogallo sta crescendo: «Il Mondiale del 2023 ha segnato una svolta: le persone hanno iniziato a guardare regolarmente le nostre partite, a riunirsi in casa. Qualche anno fa era impensabile. Il calcio è ancora uno sport spesso etichettato come maschile, certo, ma le cose stanno cambiando. Le persone hanno iniziato a rendersi conto che c'è qualità, c'è passione, c'è una storia che si sta scrivendo anche al femminile».
E nella storia in portoghese del calcio delle donne una delle maggiori protagoniste è sicuramente lei. «È una responsabilità enorme, ma è anche una delle parti più belle di quello che faccio. Il calcio mi ha dato questa opportunità, ma non gioco da sola. Sapere che ci sono ragazze che credono di poterlo fare perché hanno visto me e altre donne è incredibile. Non c’è motivazione più grande. Cerco però di dimostrare che essere un riferimento non significa essere perfette, ma essere autentiche, mostrare forza, ma anche vulnerabilità e aprire porte, affinché chi viene dopo abbia meno ostacoli».
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