Il 29 settembre 1944 alle prime luci dell’alba iniziava il più grande massacro di civili compiuto in Italia e in tutta l’Europa occidentale dai nazifascisti: la strage di Marzabotto. Nel comprensorio di Monte Sole, nel primo appennino bolognese, tra il 29 settembre e il 5 ottobre vengono uccisi 770 civili: precisamente 217 bambini, 392 donne e 132 anziani, nei comuni di Grizzana Morandi, Marzabotto, Monzuno.

Se le vittime sono civili italiani, i carnefici furono le SS della 16. SS-Panzer-Grenadier-Division “Reichsführer-SS“ in particolare il battaglione SS-Panzer-Aufklärungs-Abteilung 16/16, specializzato nella guerriglia antipartigiana e i soldati della Wehrmacht del reggimento Grenadier 1059/362 Infanterie-Division. Ma non dimentichiamo mai che i combattenti tedeschi furono affiancati da altri italiani che in quel momento sostenevano l’occupante: questi erano fascisti locali che fungevano da guide sul territorio.

Dal sito ns-taeter-italien.org, che è un progetto di ricerca sui criminali che commisero le stragi in Italia, promosso dall’Università di Colonia e supervisionato dai professori Carlo Gentile e Udo Gümpel, così leggiamo: «La 16. SS-Panzer-Grenadier-Division “Reichsführer-SS” viene costituita nell’autunno del 1943, impiegando personale proveniente da unità preesistenti che avevano fatto esperienza sia di lotta antipartigiana sul fronte orientale, sia del servizio di guardia dei campi di concentramento. Gli ufficiali e i sottufficiali erano così addestrati all'uso della violenza estrema, ma impersonale, disciplinata. Il resto del suo personale erano reclute giovanissime, spesso fanatiche ma prive di esperienza di guerra e soldati arruolati tra le minoranze di lingua tedesca dell’Europa sud-orientale e alsaziani».

Vecchi e giovani

Questa descrizione ci fa capire due cose, come venivano assemblati questo tipo di battaglioni, un misto tra spezzoni di “vecchia guardia”, formatesi militarmente nell’enorme girone dell’inferno che fu l’est Europa dopo l’invasione tedesca del ‘41 e “giovani reclute” richiamate alle armi dall’ossessiva propaganda guerrafondaia di Goebbels; una miscela esplosiva che provocherà sul suolo italiano migliaia e migliaia di morti.

A capo di questo manipolo di assassini fu messo il maggiore Walter Reder, anche lui un fanatico combattente, che rifiutò ruoli che l’avrebbero fatto stare dietro una scrivania, per rimanere sul fronte a guidare i propri commilitoni.

Reder iniziò la guerra sul fronte occidentale prima, per poi spostarsi sul fronte orientale, Lituania, Lettonia e ancora Ucraina, in battaglia a Char′kov perse la mano sinistra, neanche questo frenò la sua voglia di stare sulla linea del fronte. Lui è la sua unità saranno feroci protagonisti anche in altri grandi massacri italiani: a Bardine San Terenzo, Valla e Vinca.

La parabola italiana di Walter Reder, passata attraverso la condanna per ergastolo del 1951, termina nel 1985, quando il governo Craxi gli concesse la grazia contro il parere negativo delle vittime e dei famigliari. L’anno successivo sul giornate austriaco Die ganze Woche, Reder non solo dichiarò «Non ho bisogno di giustificarmi di niente» ma ritrattò anche la richiesta di perdono scritta agli abitanti di Marzabotto nel 1964, sostenendo che fu un’iniziativa del suo avvocato. Morì nel suo letto di Vienna nel 1991.

Comportamenti italiani

Questa breve analisi ci fornisce lo spunto per intuire che se vogliamo capire il perché di queste stragi dobbiamo cambiare prospettiva, non più soffermarci esclusivamente sul periodo 8 settembre ‘43 – 25 aprile 45, ma ampliare cronologia e geografie.

a storiografia ha abbondantemente dimostrato che i carnefici che hanno operato in Italia si sono formati in altri luoghi, in uno specifico sistema di guerra, considerata totale: ogni persona abitante in un determinato luogo era considerata un essere inferiore – o addirittura una contrarazza come nel caso degli ebrei – quindi di nessun valore umano e un nemico da temere, anche se fosse un bambino in fasce.

Gli italiani dopo l’8 settembre subiscono una degradazione etnica: sono traditori e soldati incapaci di combattere, due caratteristiche che rompono quel patto di Blut und Ehre sangue e onore che sorregge l’identità ariana. Per i tedeschi gli italiani sono traditori impenitenti, essi fanno risalire questa loro caratteristica già alla prima guerra mondiale quando il nostro paese dichiarerà guerra alla Germania, ma anche nel 1939 quando Mussolini tradirà gli accordi sottoscritti con il “patto d’acciaio” non entrando in guerra affianco alla Germania.

Questi comportamenti italiani rinfocoleranno dolorosissimi sentimenti sepolti sotto la cenere del tempo: i tedeschi degli anni Quaranta, che sono spesso reduci del primo conflitto mondiale, sono ancora traumatizzati dall’esito di quella guerra vissuto come un enorme tradimento nei loro confronti, la famosa «pugnalata alle spalle». Questo, insieme all’ideologia maturata nelle guerra all’est peserà tantissimo sulle modalità di guerra messe in atto dai tedeschi in Italia.

La storia del piccolo Franco

Ma la storia per essere ben compresa deve essere letta in maniera integrata, è quindi necessario incrociare il vissuto dei carnefici con quello delle vittime, questo affinché questi crimini non siano vissuti come mera esplosione irrazionale di violenza, ma come crimini premeditati e intesi come normale pratica di guerra. Per rappresentare queste vittime utilizzerò la storia di Franco Leoni Lautizzi, all’epoca un bambino di sei anni, e della sua famiglia.

Essi vivevano sul lato del Monte Sole che da verso il fiume Setta, ed è proprio da quella parte che iniziò il rastrellamento tedesco messo in atto per debellare le forze partigiani, o come disse il comandante della 2° compagnia, Albert Meier, dai Linksbazillen, «bacilli di sinistra», ovvero una malattia che andava eliminata dalla società.

Ma Franco raccontava che i tedeschi si tennero ben lontani dalla boscaglia perché la ritenevano infestata dai partigiani, loro rispondevano al fuoco, non erano vittime inermi come loro. Udite le prime raffiche di mitra dal fondovalle il padre Ettore si rifugiò subito nella boscaglia, mentre la madre Martina incinta prese i due figli Franco e Piero, e si nascose in in rifugio poco lontano da casa.

Ma il destino la tradì: dentro il rifugio si ruppero le acque costringendo lei, la nonna e Franco a tornare a casa per far nascere il bambino. La casa era in fiamme, i tedeschi li videro immediatamente, spararono subito, la nonna morì sul posto, la mamma rimase ferita a morte facendo da scudo con il proprio corpo a Franco, ma anche con questa protezione fu colpito 3 volte. Come ogni bambino avrebbe fatto, si accoccolò alla madre e si addormentò «in un unica macchia di sangue».

La sera fu recuperato da alcune persone che si erano rifugiate insieme a loro. Stette tra la vita e la morte per alcuni giorni, si salvò anche da una fucilazione interrotta all’ultimo momento grazie all’intervento inaspettato di una giornalista del Carlino che parlava tedesco. Suo padre dalla disperazione si consegnò ai tedeschi, morì fucilato dopo essere stato utilizzato come portatore delle casse di munizioni.

Franco e il fratellino Piero, rimasero soli al mondo, la famiglia sterminata nella strage, sopravvisse qualche zia e il nonno. Fu costretto a vivere in orfanotrofio e a subire altre violenze psicologiche. Da quel momento per circa 40 anni la vita di Franco fu un tormento, lui diceva «vivevo per odiare», non potevo ascoltare la lingua tedesca, fantasticavo nel cercare forme di vendetta nei confronti di chi mi aveva colpito così duramente.

Poi in Franco lentamente è cambiato tutto, ha capito che i tedeschi non erano tutti uguali e ha incominciato a fare pace con se stesso. Ha messo in pratica lo stesso principio di Liliana Segre, «Non dimentico, non perdono ma non odio», ha superato i demoni ed è diventato ambasciatore di pace nelle scuole con lo slogan «racconto la guerra per insegnare la pace».

Franco ci ha lasciati nel 2021 avendo a cuore il futuro d’Europa, che deve essere di pace e fratellanza tra i suoi e non odio, nel rispetto e nella memoria di quelle persone che sono perite in quella feroce guerra.

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