È un tesoro sterminato, nessuno è in grado di quantificarlo con precisione (e già questo spiega molto), si parla comunque di trenta, quaranta o anche cinquanta miliardi di euro. È evidente che gli appetiti sono tanti. Ma non solo quelli del boss che vorrebbe riprendersi il maltolto, la roba che gli hanno portato via. Ce ne sono altri.

C’è una corsa a gestire le ricchezze della mafia diventate per sentenza ricchezze dello stato, una frenesia che di frequente in Sicilia è fuori controllo e alimenta corruzione o produce storture. Sembrava uno scandalo tutto circoscritto al caso Saguto, la “zarina” di Palermo, la giudice del tribunale per le misure di prevenzione che governava la macchina dei sequestri come un affare di famiglia.

E invece quella dei beni confiscati è proprio una maledizione siciliana. L’ultima vergogna l’hanno scoperta qualche giorno fa, un altro amministratore giudiziario arrestato.

È un commercialista palermitano, l’avevano presentato come il “nuovo” dopo l’indecente epoca di Silvana Saguto - che intanto è stata cacciata dalla magistratura e poi condannata a 8 anni e 6 mesi - e che aveva preso il posto di quell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara che della Saguto era proprio il pupillo, il punto di appoggio principale per la spartizione di incarichi e prebende. Il commercialista Antonio Lo Mauro, dieci grandi patrimoni da gestire, è accusato di estorsione aggravata.

Il pizzo alla consulente

Per l’accusa, chiedeva il pizzo, qualche migliaia di euro, a una sua consulente fiscale. Più che la cifra a sbalordire è il profilo di alcuni amministratori, il criterio con il quale vengono scelti se poi finiscono in vicende torbide come quella che ha ingoiato Lo Mauro.

Alla fine del 2020 ne era stato preso un altro, Maurizio Lipani, anche lui commercialista. I conti delle aziende sequestrate erano il suo bancomat personale, ordinava bonifici a terzi o a suo favore, emetteva fatture alla moglie pure lei commercialista.

E si è scoperto, dopo il processo e la condanna a cinque anni, che faceva tutto senza alcuna sorveglianza. Libero di rubare.

È cambiato niente dopo le scorrerie della “zarina” di Palermo nel ricco e favoloso mondo delle confische mafiose?

Gli osservatori più cauti sono rassicuranti e dicono che «si tratta di episodi isolati e che non c’è alcun nuovo caso Saguto», comunque in quell’ambiente accadono cose abbastanza incredibili e a volte spudorate.

È sempre di un anno fa – e quindi siamo ben oltre la tempesta che si è scatenata sulla magistrata – che quattro amministratori giudiziari hanno chiesto una parcella di 120 milioni di euro per un anno di lavoro alla società Italgas, 3.300 dipendenti, un fatturato di 1,3 miliardi e al tempo sospetti di infiltrazione da parte della mafia di Belmonte Mezzagno.

Cifra astronomica ma “regolare”, calcolata sui parametri previsti da un decreto legge voluto proprio per rimediare alle sconsiderate elargizioni della Saguto.

Arrotondare la parcella

Il risultato finale non si è rivelato granché, tutt’altro. Nella vicenda Italgas il tribunale di Palermo ha “arrotondato” la parcella, riconoscendo ai quattro amministratori 230mila euro ciascuno: meno dell’1 per cento della richiesta presentata.

Ma non è certo la sola, chiamiamola singolarità.

C’è anche una grande azienda controllata dallo stato, l’Eni, che ha chiesto il fallimento della “Calcestruzzi Belice”, azienda sequestrata ai fratelli Cascio, per un debito di 27.300 euro. Il fatturato della società superava il miliardo. Come è finita?

Il Tribunale di Sciacca ha decretato il fallimento della “Calcestruzzi Belice”. Su 780 aziende confiscate in Sicilia soltanto 39 risultano attive. È una disfatta.

E non imputabile certo solo ai saccheggi dei compari della Saguto, per anni “uno degli incrollabili punti di riferimento per l’azione giudiziaria riguardante la criminalità mafiosa del distretto di corte di appello di Palermo (dalla relazione del Consiglio giudiziario), né all’incapacità o all’ingordigia di alcuni amministratori.

Ci sono i “costi della legalità” che pesano, la mancanza di un rapporto permanente fra autorità giudiziaria e l’agenzia nazionale dei beni confiscati, un sistema di sostegno alle imprese confiscate che non funziona.

E poi la difficoltà delle aziende che diventano proprietà dello stato. Spesso il circuito bancario ritiene affidabile e solvibile l’azienda nelle mani di Cosa nostra, non si fida più quando passa sotto il controllo dello stato. Quella dei beni confiscati, al momento, sembra proprio una guerra persa.

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