Il carcere è un luogo con una sua lingua. Il detenuto che lavora è chiamato “lavorante”, la sua paga è la “mercede” e quando ci si rivolge, tramite “domandina”, all’amministrazione penitenziaria, si scrive “alla Signoria Vostra illustrissima”.

A trovare le parole per chi non sa scrivere è lo scrivano della galera. Un ruolo informale ma solenne ricoperto dal detenuto che ha studiato: a lui si delegano le istanze per gli avvocati, le lettere per le mogli, le madri, i figli, i pensieri più intimi e i bisogni più urgenti.

Lo scrivano traduce l’oralità disordinata dei compagni e le dà una forma compiuta. In galera le lettere sono l'unico modo per comunicare con l’esterno ma la parola scritta rimane un mezzo elitario. Perciò molti detenuti sono condannati a un isolamento e a una frustrazione ancora maggiore di quello che già la detenzione determina.

Detenuti senza titoli

Il livello di scolarizzazione di partenza dei detenuti è molto più basso della media nazionale. Al 31 dicembre 2021 il 2,9 per cento dei detenuti risultava analfabeta, il 2,2 per cento era privo di un titolo di studio, il 17,5 per cento aveva la sola licenza elementare mentre il 57,6 dei reclusi con un titolo di studio non era andato oltre la licenza media inferiore.

La scuola dovrebbe quindi essere uno dei pilastri del trattamento penitenziario, ma sono molte le carceri dove si registrano gravi carenze. Nicola Dettori, ex detenuto che ha scontato vent’anni tra il carcere di Nuoro e quello di Spoleto, è entrato semianalfabeta ed è uscito laureato. «Il mio percorso è stato molto significativo ma non rappresenta la norma» racconta Dettori. «Al tempo dell’arresto non riuscivo a scrivere due righe in una lettera. Negli ultimi anni invece ne scrivevo anche quindici al giorno, per me e per conto di altri.

Ho imparato a modulare i registri, a scrivere lettere d’amore e istanze ufficiali. Scrivevo a mogli, figli, amici, attivisti, associazioni, preti, professori, compagni che studiavano in altre carceri. Questo è stato possibile perché mi sono iscritto alle medie, poi all’istituto d’arte e infine a Beni culturali. Ho iniziato a comprare libri di ogni sorta ("Chiedo alla signoria vostra illustrissima di acquistare un libro sulle opere di Raffaello") e leggevo giorno e notte, al punto da venire ripreso perché avevo sempre la luce accesa».

La galera non è un luogo dove sia facile concentrarsi. Il sovraffollamento, la mancanza di luoghi adatti allo studio, i rumori, i tempi scanditi da un volere che non è il proprio rendono la concentrazione un lusso. «Uno studente mi raccontò di aver trovato un metodo per studiare di notte: attaccava con lo scotch gli appunti alla branda sopra la sua, leggendo disteso sul letto mentre il compagno di cella dormiva», racconta Paola Nobili, insegnante di diritto che per anni ha lavorato al carcere di Sollicciano.

Aule inospitali

L’ambiente in cui le scuole carcerarie operano è dominato dallo stato di abbandono e di ozio in cui versa la maggioranza dei detenuti, un mondo chiuso in cui si perpetuano la pratica degli abusi e dei maltrattamenti, l'inesistenza dei rapporti affettivi, la diffusione capillare degli psicofarmaci utilizzati per mantenere l'ordine e sedare le coscienze, l'autolesionismo, l'illegalità sistematica, le malattie e le morti causate dai disservizi della sanità carceraria o dall’insalubrità di strutture trasandate quando non chiaramente fatiscenti al punto da risultare pericolose.

La scuola quindi, con il suo corpo insegnanti, rappresenta spesso l’unico spazio dove ai detenuti è concesso di estraniarsi dalle mura abbrutenti della galera, per dedicare il proprio tempo a qualcosa di costruttivo, instaurando rapporti umani che vadano oltre a quelli con i compagni di sezione e gli agenti penitenziari. A scuola si è studenti prima che detenuti. Nonostante ciò, il tasso di abbandono scolastico rimane alto. «Talvolta gli insegnanti hanno la sensazione di stare dando una mano di vernice su un muro marcio e screpolato», racconta Edoardo Albinati, scrittore di successo ma da 27 anni insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia, a Roma.

«Le aule sono celle e quindi squallide e trasandate, mancano i libri di testo, la frequenza degli studenti è intermittente. C’è chi viene trasferito dalla sera alla mattina, chi si ammala. Capita di vedere gli alunni più brillanti presi a lavare il pavimento dei corridoi del carcere perché gli è stato offerto un lavoro da scopini che non hanno potuto rifiutare, inconciliabile con gli orari scolastici. L’insegnante non sa se lo studente che ha in classe un certo giorno sarà ancora presente il mese dopo. Così non si lavora più in vista di un remotissimo obiettivo come il diploma ma ci si impegna sulla singola giornata, sulla singola ora di lezione, sapendo che è un’occasione che potrebbe non ripresentarsi».

I princìpi che regolano la galera sono contraddittori. Il carcere è pensato come deterrente, e al reato corrisponde una pena in senso etimologico: castigo e sofferenza. In prigione si deve stare peggio di come si stava fuori. Poi c’è il principio opposto, quello del deficit da recuperare: la devianza è il risultato di vite segnate da carenze (economico-sociali, culturali, affettive) che l’istituzione dovrebbe compensare, in un'ottica rieducativa.

La scuola carceraria è l'unico luogo dove il detenuto si impegna in qualcosa che accresce il senso delle possibilità e la stima di sé. «Non ho mai visto tanta gratitudine verso gli insegnanti e tanto impegno nello studio come nelle aule del carcere. Ricordo un detenuto alle prese con difficili esercizi di matematica asciugarsi la fronte, assorbito da uno sforzo quasi fisico», racconta Nobili.

Un’idea di dignità

Albinati crede al suo lavoro: «L’unico ambito del carcere in cui vedo una compensazione è proprio la scuola. Capita di aver classi formate da pochissimi studenti, quindi c’è un investimento addirittura maggiore sul singolo individuo. E questo impegno manda un altro messaggio: c’è una persona che si sta sgolando per te, che sta dando il meglio di sé proprio a te che fuori da quell’aula sei considerato solo un delinquente. Questo aggiunge alle lezioni un senso di solidarietà e trasmette un’idea di dignità alle persone per cui si fanno».

Racconta uno studente detenuto: «Una delle principali ragioni per cui si inizia a frequentare la scuola è che si tratta spesso dell’unica occasione per uscire dalla cella». Il banco come alternativa alla branda, la sola maniera per sottrarsi a giornate ripetitive e vuote. Ma ciò non significa che la qualità della didattica possa essere un aspetto secondario. «La scuola deve provare a far accadere qualcosa nella mente», spiega Albinati, «bisogna trovare un equilibrio tra il racconto d’avventura, la poesia, lo stimolo della curiosità che tengono alto il morale degli studenti e l’analisi logica e grammaticale.

Entrambi i vettori sono fondamentali: il primo dà soddisfazione, ma l’analisi logica, così come lo studio delle leggi della chimica, della fisica o dell’informatica, insegnano indirettamente, senza bisogno di prediche, che tanto il mondo della conoscenza quanto la società nella quale viviamo hanno bisogno di leggi e regole per funzionare. È quindi anche un’educazione alla legalità, al rispetto delle forme e delle procedure, dimensioni spesso estranee a chi ha commesso reati».

Solo i libri ti cambiano

Le statistiche danno ragione ad Albinati: il periodo delle attività scolastiche è quello in cui diminuiscono gli eventi critici in carcere; e i detenuti che portano a termine un percorso di studi soddisfacente hanno un tasso di recidiva minore.

Eppure le amministrazioni penitenziarie sono generalmente ostili e diffidenti nei confronti della scuola e degli insegnanti, ostacolando in vari modi le attività, quasi che fossero di disturbo all'ordinato fluire della vita carceraria.

Nicola Dettori, il detenuto che si è laureato in carcere, è incredulo: «Il detenuto cambia solo con i libri: sono inutili la repressione, l’isolamento, i trasferimenti dall’altro capo del paese, lontano dalla famiglia, le umiliazioni, le prediche, le punizioni. Così uno non cambia mai. Il detenuto rinchiuso a far nulla diventa una belva».

(continua)

 

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