C’è stato un momento in cui Matteo Salvini ha rischiato davvero una fuga di massa e soprattutto di nomi eccellenti dalla sua Lega trasformata in un brand personale. Nove mesi fa, i primi di febbraio 2023, con Salvini già vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, alcuni uomini fedeli alla Lega nord e al federalismo si sono trovati attorno a un tavolo per discutere del futuro dell’autonomia.

Tra questi c’era anche un ex senatore che poi effettivamente ha lasciato la Lega per andare in Fratelli d’Italia. L’idea era fondare un movimento nuovo chiamato Lega, senza più Salvini.

Tra chi congiurava contro il leader c’era anche chi aveva già lavorato a un nuovo logo con la scritta “Lega”, appunto, e il simbolo della regione: per esempio la Lega Veneto avrebbe avuto un leone di san Marco disegnato al centro. Da quanto risulta a Domani, riferito da alcuni dei protagonisti di quelle riunioni, del progetto erano stati messi a conoscenza anche i fedelissimi di Luca Zaia e Massimiliano Fedriga.

Alla fine non se n’è fatto nulla. «Aspettiamo i congressi per cambiare la linea dall’interno», è stata la risposta dei più influenti. Campa cavallo, hanno risposto i più scettici, che qualche mese dopo hanno optato per lasciare il partito. A minare la fiducia verso Salvini, oltre alla linea nazionalista poco apprezzata da Firenze in su, è la gestione della Lega come fosse una proprietà esclusiva del segretario. Un caso che spiega, meglio di altri, la tecnica salviniana usata per amministrare il partito, è la chiusura dell’Accademia federale per concedere l’esclusività della formazione alla scuola politica gestita da Armando Siri. Scuola che fa capo non al partito, ma a un’associazione privata.

Siri è tra i pasdaran assunti come esperti da Salvini a 120mila euro l’anno: uno dei tanti fedelissimi, come raccontato da Domani nella prima puntata di questa inchiesta, che sommati costano alle casse pubbliche più di un milione di euro, suddivisi tra ministero delle Infrastrutture e palazzo Chigi, dove Salvini da vicepremier ha diritto a un secondo staff.

Avanti gli amici

Insomma il partito modello famiglia non è prerogativa di Fratelli d’Italia. Salvini, da quando ha rottamato la Lega nord trasformandola in Lega Salvini premier, ha fatto di tutto per non essere da meno. Così amici, yes man, coppie di fidanzati, hanno conquistato tutte le posizioni che contano nel nuovo movimento sovranista.

L’importante è che nel curriculum personale avessero tra le caratteristiche la fedeltà non al partito ma a lui, il Capitano del sovranismo italiano. L’approccio dei cerchi magici portato all’estremo è stato però fonte di malessere interno fin dal principio. Mal di pancia attenuati solo dallo strepitoso successo elettorale dell’anno d’oro salviniano, 2018-2019. Esaurita la spinta del consenso che aveva toccato il 34 per cento alle europee, è finita anche la pazienza ed è aumentato il dissenso.

Tuttavia c’è una questione ontologica che tutela Salvini da un eventuale putsch interno: il nome del partito registrato dal notaio nel 2018 è Lega Salvini premier. «Chi prenderebbe mai la leadership di una Lega personalizzata a immagine del segretario?», è la domanda retorica di una qualificata fonte della Lega di area federalista, una costola ormai minoritaria e marginalizzata nel progetto nazionalista voluto da Salvini. Per questo motivo le tante voci di una successione sono rimaste sempre tali. Né Zaia né Fedriga porterebbero avanti una battaglia interna per diventare segretari della Lega Salvini premier.

Largo, perciò, alle nuove leve del sovranismo, ritenute affidabili, poco inclini ai mugugni, appiattite sulla linea del segretario. L’avanzata di Susanna Ceccardi, eurodeputata, è la sintesi che certifica la svolta familistica della Lega salviniana. Da sindaco di Cascina, in Toscana, è diventata una degli esponenti più influenti del cerchio magico del Capitano. Nel 2018 è entrata nello staff dell’allora vicepremier Salvini (governo Conte I) con l’incarico di consigliera per il programma di governo a 65mila euro l’anno.

Nel frattempo è diventata commissaria della Lega nella sua regione e, con l’appoggio del leader, ha spodestato chi era cresciuto con il mito della Lega nord di Umberto Bossi. Poi è stata scelta come candidata alla regione, esperimento fallimentare. Intanto ha ottenuto un posto sicuro a Bruxelles come eurodeputata. Con lei è cresciuto nel partito il suo compagno, Andrea Barabotti, responsabile della Lega per gli enti locali in Toscana, candidato alle ultime politiche in un listino bloccato.

Fuga silenziosa

I detrattori di Salvini di una cosa possono essere certi: a dicembre festeggerà i suoi dieci anni da segretario senza particolari patemi. L’opposizione interna è inesistente. Un po’ ovunque, nei congressi provinciali e regionali, prevalgono le mozioni del Capitano. E anche chi diceva «bisogna restare e cambiare dall’interno» ha capito che è impossibile. Chi non è d’accordo ha solo un’alternativa: l’addio alla Lega. Uno degli ultimi a lasciare il partito è stato Vito Comencini, ex deputato e coordinatore veronese della Lega, ha lasciato con queste motivazioni: «Non è più la Lega che conoscevo, quella delle battaglie identitarie. La Lega attenta alle esigenze dei territori non esiste più. Questa non è più la Lega, ma è il partito di Matteo Salvini». Non è stato il solo. Nel mese di ottobre un sindaco e un segretario di sezione locale, sempre in Veneto, hanno salutato il partito di Salvini.

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