Gentile ministra della Giustizia Marta Cartabia,
non trovi strano che una lettera privata venga resa pubblica attraverso un giornale. C’è una ragione; tutti ricordano che fu proprio in seguito alla pubblicazione su Domani di un’inchiesta sui pestaggi di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che Lei – la prima volta per un ministro! – volle sincerarsi di persona degli abusi che erano stati commessi nelle carceri, di sua giurisdizione.

Le scrivo in merito al “depistaggio Borsellino”, oggi ufficialmente chiamato «il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana»; parliamo di indagini inquinate fin dall’inizio, di un grottesco pentito dichiarato attendibile da una generazione di magistrati.

Parliamo di illegalità, di intimidazione della stampa, di torture. Ora si comincia a sussurrare che tutta quell’impostura abbia favorito i veri colpevoli. Ma se ne intuisce anche la potenza: l’infamia è stata mostruosa e troppe persone sono state coinvolte. Si scopre quanto la giustizia non abbia voglia di essere disturbata; quanto la giustizia sia permalosa, se offesa; si scopre che la giustizia ha molto potere e che non conosce pentiti, né rimorsi.

Credo, signora ministra, che questo “trentennale di celebrazioni” sia stato per Lei, come per tutti i cittadini divenuti consapevoli dei fatti, fonte di un profondo disagio. Mi occupo da trent’anni di questa vicenda, con libri, articoli, consulenze a commissioni antimafia e ho appena pubblicato il libro che le ho fatto avere. Non ho scoop da proporre, né notizie di grandi complotti; né frammenti di intercettazioni segrete.

Ho solo messo insieme date e luoghi, persone e movimenti finanziari, per arrivare ad alcune conclusioni che qui sintetizzo: le stragi del 92-93 (a Palermo e in continente) sono state realizzate sul campo da Cosa Nostra con l’aiuto e l’antica expertise di una parte dei nostri servizi segreti. L’obiettivo era il solito: sovvertire il nostro ordinamento democratico. In questa operazione il “clan Graviano” (una sconosciuta famiglia mafiosa di Palermo) ha avuto un ruolo operativo decisivo, in cambio di una “favolosa protezione” delle loro persone e dei loro affari.

Per quanto riguarda il “concorso di pezzi dello stato”, un altro ruolo importante lo ha avuto tale Antonino Gioè, nello stesso tempo mafioso e parà della Folgore diplomato in sabotaggi, arruolato dai servizi già a metà degli anni Ottanta per “allontanare” il giudice Falcone da Palermo. Gioè è sulla collinetta di Capaci il 23 maggio 1992 e viene trovato morto impiccato nel carcere di Rebibbia nel maggio 1993. (In trent’anni la figura di Gioè non ha mai destato interesse in alcuna procura).

Falcone dimenticato

Giovanni Falcone ha cominciato a morire alla fine degli anni Settanta, quando il giudice ha intuito la straordinaria potenza economica e finanziaria di Cosa Nostra e che la Sicilia si stava trasformando in un “narcostato”: mafia, cemento e il monopolio del traffico internazionale dell’eroina muovevano il paese Italia, altro che la Fiat; politica e magistratura erano nelle mani di Cosa Nostra.

Nel 1992, uccisi lui e Borsellino, il famoso “follow the money” che aveva permesso a Falcone di capire, è stato vistosamente abbandonato. Né la procura nazionale antimafia, né le procure distrettuali hanno seguito il suo insegnamento. A indagare sui loro omicidi, i governi hanno chiamato direttamente i servizi segreti e un oscuro sbirro cui vennero dati poteri illimitati. Per prima cosa è stato risolto il “caso Riina” – diventato scomodo per tutti; “la bestia di Corleone” è stata “consegnata” dalla mafia stessa, dopo un lungo negoziato (con grandi passaggi di denaro e di favori tra l’uno e l’altro schieramento).

Gentile ministra, apprendere alcuni particolari di quella cattura la interesserà: sono stati i Graviano a gestirla, addirittura fornendo vitto e alloggio agli eroi che hanno messo in atto la più grottesca messa in scena del secolo. Sono stati i Graviano a fornire alla giustizia il famoso Balduccio di Maggio, sì, quello del bacio ad Andreotti…, che si è rivelata essere una bella polpetta avvelenata. Finita questa operazione, è iniziato il depistaggio Borsellino, i cui frutti marci sono ancora tra noi.

In cerca di un segnale

Sono passati trent’anni. Certo, oggi viviamo in un’altra Italia, dove la mafia fa parte del paesaggio e non uccide più nessuno, perché non ne ha necessità. La città di Palermo, appena finito il trentennale, eleggerà tra pochi giorni il sindaco che le è stato clamorosamente consigliato da due illustri condannati per mafia, la famosa “offerta che non si può rifiutare”. In sostanza, i palermitani hanno perfettamente capito chi ha vinto.

Gentile ministra, Le sarei grato mi rispondesse. Anche se dovesse dirmi, semplicemente, che il mio lavoro è senza senso, frutto di fantasia, o addirittura offensivo nei confronti di chi da trent’anni è in prima linea contro la mafia.

Ma se invece lo considerasse un’utile lettura, sarei felice che, anche su questo argomento, lei scendesse in campo. Sì, capisco: l’enormità di questa vicenda necessita che si ponderino bene le parole e gli atti; ma confido in Lei. Grazie per aver letto.

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