Ci mancava solo Stefano Delle Chiaie. Che lo storico leader di Avanguardia nazionale (ovviamente scomparso, funziona sempre così) fosse o meno trent’anni fa a Capaci, nell’imminenza dell’attentato a Giovanni Falcone e alla sua scorta, la sola ipotesi un effetto concreto lo ha già prodotto. Il primo: le perquisizioni della procura nella redazione di “Report” e a casa del giornalista Paolo Mondani, a caccia però di qualcosa di più di semplici elementi relativi a violazioni del segreto istruttorio (e lo stesso Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, lo ha implicitamente riconosciuto).

Il secondo: le immancabili schermaglie tra aficionados e detrattori della trasmissione di Rai 3, che grande spazio ha dato alla questione. Poi però ce n’è un terzo, perfido e sottotraccia: l’effetto di spazzare via gli elementi di realtà concretissimi sulla stagione delle stragi di mafia, con i quali l’Italia dovrebbe finalmente fare i conti, compresa la possibilità che oggi qualcuno si sia forse incaricato di schermarli dietro un gran polverone.

La lettura dell’ultimo libro di Enrico Deaglio, Qualcuno visse più a lungo, pubblicato in questi giorni da Feltrinelli, ci riporta invece con i piedi per terra (Deaglio è anche un collaboratore di Domani). Ed è una lettura abbastanza sconvolgente, poiché mette in fila responsabilità precise di più parti dello stato nel tremendo susseguirsi dei fatti (le morti di Falcone e Borsellino, le stragi in “continente”, la gestione dei collaboratori di giustizia, i processi, il caso Scarantino).

Un altro pianeta

Non aspettatevi un groviglio di verbali, intercettazioni e dibattimenti, materiale sempre da vagliare a fondo quando si tratta di cose siciliane. No: questo è un libro che si legge d’un fiato, un affresco di storia nazionale che parte ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi nella politica italiana (gennaio 1994, snodo esiziale) risalendo invece a quando la Sicilia ha iniziato a diventare un “narcostato”. E siamo quindi nella seconda metà degli anni Settanta, con la parabola di un certo Michele Sindona, e negli Ottanta della grande mattanza: Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, i poliziotti e carabinieri Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Emanuele Basile, i magistrati Rocco Chinnici, Gaetano Costa, Cesare Terranova. Ed è una lista parziale.

Deaglio coltiva una lunga consuetudine con le vicende di Sicilia. Vi è sceso nel 1982 proprio a seguire i funerali del segretario regionale comunista Pio La Torre, “padre” della legge sulla confisca dei patrimoni ai mafiosi. E si è trovato di fronte una realtà inattesa: donne vestite di nero dietro al feretro, Enrico Berlinguer e Sandro Pertini pallidissimi, 100mila persone.

«Un senso di tragedia incombente: mi ha colpito molto, sembrava un altro pianeta – racconta –. Da quel giorno non ho mai smesso di andare in Sicilia, per i giornali e la televisione. Seguivo in particolare storie di piccola mafia nella provincia di Agrigento, poi c’è stato l’omicidio del mio amico Mauro Rostagno a Trapani».

Nel 1993 ha scritto un libro sulla seconda guerra di mafia, Raccolto rosso. Perché quel titolo? «Ero rimasto incuriosito dal fatto che quel famoso giallo americano scritto da uno scrittore comunista, Red Harvest di Dashiell Hammett, dove non ci sono i buoni e i cattivi ma solo una violenza che cresce inarrestabile, fosse stato citato sia da Leonardo Sciascia sia da Falcone e fosse nelle loro librerie».

Depistaggi

Una decina di anni fa, Deaglio ha scritto poi quello che lui chiama «un libretto», ma avercene di libretti così: si trattava infatti di Il vile agguato, dove per primo squadernava l’incredibile vicenda dei depistaggi sull’attentato a Borsellino.

Oggi il caso Scarantino è noto come, sintetizza Deaglio, «un’impostura ordita dalla procura di Caltanissetta, da Arnaldo La Barbera, con il tacito assenso di un centinaio di magistrati, del Csm e dei vari governi che si sono succeduti». Un’impostura durata 15 anni e per la quale sempre a Caltanissetta è in chiusura un processo con alla sbarra, per calunnia aggravata, tre agenti di polizia che facevano parte appunto del pool che indagava sulla strage di via D’Amelio.

La Barbera, morto da tempo, è un personaggio chiave. La sua incredibile carriera di super poliziotto è raccontata da Deaglio quasi fosse il personaggio di un film. Ma senza nulla risparmiargli, a partire dal ruolo che avrebbe avuto – stando a rivelazioni di Francesco Di Carlo, prima boss e poi collaboratore di giustizia – nell’attentato fallito-avvertimento a Falcone all’Addaura, il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il magistrato aveva affittato per il periodo estivo. E poi come “arruolatore” del cugino di Di Carlo, Nino Gioè, poi implicato nell’organizzazione della strage di Capaci.

Quello stesso La Barbera che, responsabile della sicurezza sia di Falcone sia di Borsellino, è stato l’unico tra i “papaveri” palermitani a non venire rimosso dopo i massacri in cui hanno perso la vita i due magistrati. La questione è scottante e Deaglio comprende ovviamente anche l’episodio del suicidio di Gioè in carcere (ma tale ovviamente non è), all’indomani delle strage di Milano del 27 luglio del 1993 e degli attentati romani della stessa notte.

Il potere che mente

Spiega Deaglio: «Questo libro è un po’ il finale di partita, visto il trentennale: gli ho voluto dare una patina di qualcosa avvenuta in tempi passati, di cui rimangono ricordi vaghi, deformati. Ma, ad essere sinceri, è da un po’ di tempo che mi ha accompagnato un senso di rabbia per la capacità che il potere ha avuto di mentire, di deformare, di depistare coinvolgendo tutta l’Italia».

Il caso Scarantino in tutto questo è ovviamente centrale, ma a fargli da sfondo è una trama da film in cui, guarda caso, spuntano continuamente citazioni e ricorrenze del film sulla mafia per antonomasia, Il padrino di Francis Ford Coppola. E senza dimenticarne la conclusione, quel terzo atto in cui sotto le vesti di don Lucchesi si riconosce senza fatica il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Deaglio rievoca anche un proprio colloquio con il regista, qualche anno fa a San Francisco. E scrive: «Come aveva “osato” mettere nel film Andreotti come capo della mafia? Allora nessuno in Italia si sarebbe permesso. Mi guardò stranito: “Andiamo, lo sapevano tutti”».

Un film nel film è quello dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, anzi, dell’intera famiglia Graviano e di come il quartiere di Brancaccio sia diventato negli anni simbolo della loro forza. A partire dal San Paolo Palace Hotel inaugurato nel 1990, mastodonte di 14 piani a quattro stelle, piscina in terrazza, eliporto, 260 stanze e dieci suite, sale fitness, due ristoranti e ben nove sale congressi, per una capienza complessiva di 1.800 posti. Tutta roba dei Graviano, ovvio. Ha ospitato, ed è un dettaglio pazzesco, anche poliziotti e carabinieri impegnati nell’arresto di Totò Riina. O meglio: nella messa in scena del suo arresto. Perché, come suggerisce Deaglio, la cattura altro non sarebbe che una consegna, frutto di un patto inconfessabile tra gli stessi Graviano (che sostituiranno l’odiato Riina ai vertici di Cosa Nostra) e i servizi.

La discesa in campo

Follow the money, recita un celebre dettame investigativo, che andrebbe particolarmente osservato con riferimento alle tragedie di Falcone e Borsellino: anche Deaglio sottolinea infatti che la vera causa delle loro morti sta nelle loro indagini, da più parti ostacolate, su mafia e appalti. Ma a quella raccomandazione ne andrebbe aggiunta un’altra: occhio alle date.

Come quella dell’arresto a Milano dei Graviano: 27 gennaio 1994. Una notizia che allora sui giornali passò in secondo piano, zeppe come erano le pagine di reazioni e commenti alla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, appena avvenuta. Un caso?

Nuovi referenti politici

No, secondo Deaglio, che fa ampia citazione delle motivazioni della sentenza di primo grado del processo “’ndrangheta stragista”, di appena due anni fa: dove si parla della convinzione dello stesso Giuseppe Graviano, che fino a quel momento godeva di una «copertura favolosa» (parole sue), di come l’inatteso arresto sia stato «il frutto di un accordo messo in atto da vari soggetti (…) per impedire la formalizzazione, già fissata per il mese successivo, dell’accordo stipulato con Silvio Berlusconi che aveva comportato l’investimento negli anni settanta di ingenti somme di denaro».

Va detto che in sentenza i giudici affermano pure che «tale versione dei fatti, cioè che l’arresto fosse stato eseguito per evitare che venisse poi formalizzato un accordo di natura economica che vedeva coinvolto Silvio Berlusconi, con una sorta di complicità da parte dell’Arma dei Carabinieri, è rimasto totalmente indimostrato e risulta allo stato sfornito di elementi di supporto».

Così come Mediaset ha sempre smentito che sia mai avvenuto un incontro tra il Cavaliere e Giuseppe Graviano, come sostenuto invece da quest’ultimo. Ma attenzione: secondo la Corte di Reggio Calabria «ciò che è certo è che Graviano, dopo avere vissuto indisturbato da latitante per circa dieci anni, non immaginava di essere arrestato proprio quando aveva individuato dei nuovi referenti politici che egli erroneamente aveva ritenuto affidabili». Che filmone ne verrebbe fuori, se solo qualcuno avesse il coraggio di produrlo.

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