15 settembre 2008, Lehman Brothers crolla sotto il peso dei mutui subprime  e innesca  la crisi economica mondiale  più grande dal 1929. Un mese e mezzo dopo, il 31 ottobre, nasce Bitcoin, la prima criptovaluta che si può vendere e comprare senza passare per le banche. Il segnale è chiaro, la grande  finanza ha tradito la fiducia della gente, ha fatto crollare il mondo e noi facciamo a meno di loro. 

A firmare il documento originario è Satoshi Nakamoto e ancora oggi, dopo tredici anni, nessuno ha scoperto chi sia. Ci ha provato per anni il giornalista e scrittore Joshua Davis ma ha dovuto alzare le mani: «L’email da cui scrive non è tracciabile, i post che scrive nemmeno, non c’è nulla nel codice che lo identifichi , l’anonimato di Nakamoto è studiato in ogni dettaglio…», ci ha detto a Presadiretta.

Ci ha provato anche Dan Kaminsky  uno dei più famosi hacker al mondo che per mesi ha tentato di violare i segreti dell’account; missione fallita perché, secondo le parole di Kaminsky, «chiunque abbia programmato il Bitcoin è un maestro di crittografia», ed è giunto alla conclusione che «sembra piuttosto il lavoro di un team, perché se fosse stata una sola persona sarebbe un genio assoluto». 

Ha ragione Kaminsky, l’operazione è geniale e molto raffinata dal punto di vista tecnico. Il primo colpo di genio  è di aver immaginato Bitcoin fin dall’inizio come una moneta scarsa, che non può essere “battuta” all’infinito,  ricreando così in ambito digitale  la scarsità dell’oro, con il risultato che meno moneta c’è in circolazione, più vale.

L’idea ha funzionato e molto bene: nel 2010 ci volevano 10mila Bitcoin per comprare 3 pizze, oggi,  undici anni dopo, un solo Bitcoin vale 42mila euro e gli investimenti in questa criptovaluta hanno superato il valore di mille miliardi di dollari. Geniale è anche la struttura tecnologica che consente la compravendita e le transazioni economiche di Bitcoin.

Questa sera, a Presadiretta, vi porteremo nelle fabbriche  dove tutte le transazioni vengono lavorate, enormi stabilimenti pieni di computer e schede video, accesi H24, con una gigantesca capacità computazionale e un esagerato consumo energetico che in cambio del loro lavoro contabile estraggono dalle rete Bitcoin: non a caso le chiamano “miniere”, un’industria che negli ultimi anni è esplosa al punto che oggi si fa fatica ad acquistare la dotazione elettronica che serve per questa specialissima “corsa all’oro” .

L’incertezza

Ma è  tutto oro quel che luccica? No, perché i Bitcoin sono soggetti a forti speculazioni che ne fanno ballare il valore. Un esempio per tutti: a marzo del 2021 Elon Musk dichiara che la Tesla avrebbe  accettato pagamenti in Bitcoin, il cui valore schizza in poche ore a oltre 60mila dollari.

Due settimane dopo lo stesso Musk dichiara che il Bitcoin non è sostenibile dal punto di vista ambientale perché  energivoro e la criptovaluta crolla a 40mila dollari, mandando in fumo  500milioni di dollari di investimenti.

Avesse fatto la stessa cosa con un titolo del mercato tradizionale  avrebbe commesso un reato e sarebbe stato sanzionato dalla Sec degli Stati Uniti, l’autorità di vigilanza sulla Borsa. Ma il mondo delle criptovalute è stato costruito apposta per sfuggire a qualsiasi tipo di controllo e tutte le speculazioni sono possibili.

Poi in 13 anni sono nate seimila nuove criptovalute  e questa sera vi racconteremo di truffe da decine e decine di miliardi di dollari subìte da chi ci aveva investito. Ma quel che rende questa storia delle criptovalute così importante è che  l’innovazione tecnologica che le ha prodotte ha ormai  aperto un mercato che prima non c’era, da cui non si torna più indietro e che fa gola a molti.

Quando Facebook ha annunciato nel 2017 la sua moneta digitale  quasi tutte le banche centrali sono saltate sulla sedia, hanno capito subito che  con i suoi quasi tre miliardi di utenti il colosso di Zuckerberg sarebbe potuto diventare la banca privata più grande del mondo. Ecco perché quasi tutte le banche centrali, come risposta all’attacco lanciato dalle criptovalute, stanno progettando la loro “moneta digitale di stato”. 

Noi siamo andati  in Cina, perché è l’unico paese al mondo che la  sta già sperimentando:  lo “Yuan digitale di Stato” viene usato in 28 città con 5,4 miliardi di dollari di transazioni effettuate , una partita che però non si gioca solo in quel grande paese.

L’ambizione è di farlo diventare una moneta internazionale e questa rappresenterebbe  un attacco diretto e frontale al dollaro. Con un  dettaglio in più che spaventa molto l’establishment americano:  l’uso dello moneta digitale cinese  consentirebbe ai paesi che lo utilizzano di sottrarsi allo “swift” , il protocollo occidentale che regola i bonifici bancari e grazie al quale gli Stati Uniti possono comminare le sanzioni economiche come quelle imposte alla Corea del Nord o all’Iran. Si, proprio una  “guerra dei soldi” . E le banche italiane?

In Italia

Alessandra Perrazzelli, vicedirettrice Banca d’Italia ci ha detto che lo scorso anno le banche hanno aumentato dell’8 per cento i prestiti alle imprese, una conseguenza diretta dei 200miliardi di euro garantiti dallo Stato che servivano a  sostenere l’economia colpita dal Covid e transitati per gli istituti di credito.

Ma questa sera sentiremo molte testimonianze di imprenditori a cui in cambio è stato chiesto di rientrare dagli scoperti e/o di garantire quei prestiti con i propri beni privati e una larga parte di quei soldi sono serviti a coprire i crediti  che rischiavano di diventare inesigibili.

Del resto sono anni che le banche fanno fatica a fare il loro mestiere, cioè sostenere e scommettere sull’economia reale: secondo dati di Banca Etica il crollo dell’erogazione del credito degli ultimi 20 anni ha fatto perdere al sistema Italia oltre 263 miliardi di euro. Insomma , se la partita si riduce solo a chi fa più soldi non c’è da stupirsi che si cerchino altri fiumi più redditizi in cui farli scorrere.

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