È accaduto anche stavolta, come in ogni catastrofe, politica o sanitaria, e di conseguenza culturale. È accaduto in sordina, come sempre. La narrazione della pandemia, il suo flusso di notizie e di sperdimenti, di paturnie paranoiche e di legittime apprensioni, ha sacrificato le presenze marginali del pianeta, le più deboli, quelle che non hanno parola: gli animali. In Europa si è parlato pochissimo, e quasi per nulla in Italia, delle migliaia di mucche rimaste bloccate per mesi nel Mediterraneo, della loro Odissea senza poesia e senza ritorno.

Si tratta di 864 giovani tori a bordo della Karim Allah, partita dalla Spagna a metà dicembre, e di 1.800 bovini (poi solo 1.700) sulla Elbeik partita da Tarragona. A entrambe le spedizioni è stata negata l’entrata in vari paesi, inclusi la Turchia e la Libia, per paura che avessero la “febbre catarrale dei piccoli ruminanti”, una patologia non contagiosa per gli umani, e gli animali sono stati lasciati a se stessi, in mezzo al mare come i migranti, a morire di fame, con l’alopecia e l’artrite settica, squamati, troppo malconci per essere accettati in Europa o fuori dall’Europa, finché, tra un garbuglio strettamente burocratico e l’altro (certificati sanitari errati, etc) è stata ordinata dalle autorità spagnole una mattanza improvvisata.

Impassibilità

Vi chiederete che differenza fa, nel peso del dramma: erano comunque destinati a essere uccisi, divorati. Il senso della loro spedizione era comunque morire per noi, come sempre. La differenza, più che nel fatto di cronaca e in tutte le sue possibili analisi sociologiche, è nella nostra impassibilità. Nel modo inespressivo in cui una storia del genere, nonostante la sua opulenza narrativa – migliaia di bovini lasciati a morire senza valida ragione – ha attraversato i nostri giorni senza lasciare una minima traccia.

Si presterebbe a una metafora, anzi a un’abbondanza di metafore, ognuna di queste navi piene di animali lasciati a se stessi, a una disperazione sospesa sul mare e ancor più struggente poiché inintellegibile a se stessa. Potrebbe essere ad esempio la zattera di Gericault, con la sua intensità tragica e le sue luci apocalittiche, o semplicemente un’arca di Noè fallita, in cui il diluvio non è esterno ma interno, un diluvio culturale, è il fallimento della nostra civiltà che sacrifica sempre chi non ha potere né parola. Invece no, nessuna metafora, la faccenda è rimasta letterale: mucche che muoiono in mare, non volute da nessuno, non raccontate da nessuno.

Sacrifici usa e getta

Non abbiamo parlato molto di animali, in effetti, durante l’emergenza Covid, come d’altronde non ne parliamo abbastanza in generale, tra un sorriso divertito di fronte ai gattini di YouTube e un senso di colpa mite e domestico di fronte a una bistecca, tra una petizione animalista cacciata nello spam e un cucciolo adottato durante il lockdown più per solitudine nostra che del cucciolo. Eppure abbiamo assistito al crudele massacro dei visoni in Danimarca: quasi 17 milioni di corpicini bianchi ammassati sui camion, sedati, portati a essere abbattuti. Colpevoli di avere il Covid ma soprattutto, agli occhi di chi portava avanti il loro sfruttamento, colpevoli di aver messo in crisi ammalandosi un settore molto redditizio dell’economia danese.

Sarebbe bastato questo, alla percezione della tragedia, ma poi è arrivato l’ordine di riesumarli per cremarli, il prossimo maggio, perché anche da morti ci creano disturbo: troppo vicini a falde acquifere, le carcasse rischiano di contaminarci. Potevano diventare un simbolo, anche loro, la parte visibile di una ferita bruciante nell’inconscio collettivo – lazzari del pianeta pandemizzato, martiri delle nostre malattie, di mali che abbiamo creato per imporci sul mondo naturale – invece anche quella è stata una morte culturalmente inutile, un sacrificio usa e getta, non impresso nella coscienza, come si addice a tutte le immagini e notizie nell’era di Instagram, dove tutto, persino la morte, viene consumata come un pasto al Burger king.

L’allontanamento

Ma non è sempre stato così. Un tempo gli animali, e non solo i faccini dolci dei nostri cani e gatti, erano al centro della nostra emotività, erano vicini a noi come noi lo eravamo a loro, in una simbiosi che possiamo intuire, come un’eco, dalle nostre lingue. Parliamo di zodiaco senza pensare che significa “luogo degli animali”: nemmeno il retaggio delle nostre parole ci tutela da un’indifferenza alle forme di vita non umane. I cinesi, poi, dicono “casa” con un ideogramma che rappresenta un maiale sotto un tetto, perché il maiale era un animale domestico molto amato. Persino la parola “natura”, in cinese e in giapponese, è nata nell’epoca moderna, poiché è allora che si è cominciato a invadere il mondo naturale, e non c’è mai bisogno di una parola finché non ci si stacca dall’oggetto che designa, in quello che è di solito un rapporto di potere.

Hillman ha rintracciato il momento esatto in cui è avvenuto l’allontanamento dagli animali: è stato quando li abbiamo trasformati in simboli, legando le loro apparizioni oniriche a istinti e altre banali rappresentazioni dell’umano. È stato dunque un difetto di narcisismo, una degenerazione del nostro vizio autoanalitico che tutto strumentalizza: l’animale è diventato veicolo, non più essere in sé. È stato allora che abbiamo smesso di ascoltarli, utilizzandoli invece come specchi. Chissà cosa avrebbe detto Hillman, delle mucche morenti in mare, che non diventeranno nemmeno simbolo. Chissà se avrebbe mai pensato che il nostro allontanamento arrogante si potesse aggravare ulteriormente.

Ormai, della complessità irraggiungibile degli animali, vediamo soltanto la corsa al cibo, la pulsione alla sopravvivenza, cosa che appartiene a tutto il mondo vivente, persino all’ostinazione delle piante che cercano la luce, ma che per nostra idiozia abbiamo sempre identificato con il regno delle bestie, coniando persino un termine, “animalità”, che denota tutte le propensioni meno nobili dell’essere umano. 

Abbiamo voluto pensare che l’animale, in quanto privo di logos, fosse anche privo delle sofisticazioni del sentimento. Abbiamo voluto esigere, dai nostri cuccioli, compagnia e intrattenimento, rispetto asimmetrico: li abbiamo condannati, nel migliore dei casi, a farci da geishe e da pupazzetti, e nel peggiore da pranzo e cena. Non vediamo mai il modo in cui stanno al mondo, ma solo il modo in cui stanno nel nostro mondo: non li ascoltiamo, non li riconosciamo, vogliamo solo essere ascoltati, riconosciuti.

Valorizziamo ogni loro gesto che si avvicina al nostro sentire, ma ignoriamo ed equivochiamo tutto il resto: tutte le azioni, immagini, sentimenti che sfuggono alla nostra lettura e sprofondano nel mistero del loro essere animali. Li cibiamo, ossessionati dalla loro fame e scambiandola per avidità. Li amiamo da lontano, dalla cella autoreferenziale del nostro linguaggio.

Di loro ricordiamo le fusa, le carezze, gli occhi fissi lacrimosi, i loro slanci per avvicinarsi a noi, e dimentichiamo il modo in cui noi non abbiamo mai provato ad avvicinarci a loro. Ora muoiono nel nostro mare e nella nostra terra – le mucche affamate e i visoni pandemizzati, e chissà quanti altri – senza uno sguardo, senza una notizia sul giornale, e non ci rendiamo conto che insieme a loro muore la parte più importante di noi.

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