È un mafioso quasi morto che appartiene a una mafia già morta. Il suo arresto non è altro che il bollo dello stato su una battaglia vinta almeno una quindicina di anni fa, il sigillo sulla disfatta di Corleone inteso come potere mafioso, terrorismo, come ricatto alle istituzioni. Con l’ultimo dei boss di quella generazione dannata cade però anche l’ultimo alibi.
D’ora in poi vedremo (o, forse, non lo vedremo mai) quale sfida sarà lanciata agli organismi criminali che infestano l’Italia. C’è una mafia degli incensurati che sembra ancora intoccabile, una mafia “trasparente” – per usare la felice definizione di una giudice siciliana – che si è fatta sistema infetto.

La mafia che non c’è più

La cattura di Matteo Messina Denaro è uno spartiacque, è il confine tra un’epoca e l’altra ma anche il momento nel quale si può misurare la capacità e la volontà dello stato di non farsi sopraffare un’altra volta.
In queste ultime ore ho sentito e letto tante stupidaggini e grossolane interpretazioni intorno alla fine della latitanza del boss: «La mafia è stata sconfitta»; «L'antimafia non ha più senso»; «Cosa nostra addio, basta 41 bis e leggi speciali».

Le stesse parole le avevo ascoltate anche nel dicembre del 1987, subito dopo le condanne al maxi processo di Palermo. Inni al trionfo. Nemmeno un mese dopo il Csm umiliò Giovanni Falcone non nominandolo consigliere istruttore a Palermo, due anni dopo ci fu l’attentato contro di lui sulla scogliera dell’Addarura, nel 1992 lo fecero saltare in aria insieme a Paolo Borsellino. Andrei molto cauto nel cantare vittoria con tanta sicumera. Sarebbe magari più giusto dire: una mafia è stata sconfitta, “una” e non “la” mafia.

La politica che “arresta” i boss

Bisogna ragionare a freddo su Matteo Messina Denaro e non farsi prendere la mano o sbracare come fa quel titolo di giornale (“Bingo, preso un altro boss con la destra al governo”), personalmente sono contento quando arrestano un mafioso durante i governi di centrodestra e quando li arrestano durante i governi di centrosinistra, perché in realtà ad arrestare sono stati i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale, il Ros, comandante Pasquale Angelosanto, da non confondere con il Ros di trent’anni fa, comandante Mario Mori, quello del covo non perquisito al capo dei capi Totò Riina.

Torniamo a lunedì. Comprensibile l’euforia per la cattura di un mafioso che sembrava imprendibile e che ha fatto girare la testa ai cacciatori di latitanti, comprensibile anche la speranza che il fermo possa portare allo sviluppo di indagini interessanti e alla scoperta di altri complici. Ma c’è altro nella vicenda da esaminare.
Fin da subito si è diffusa la voce che l’arresto di Matteo Messina Denaro non sia stato il risultato delle investigazioni dei carabinieri, ma che lui si sia consegnato.

Qualcuno ha parlato anche di una telefonata arrivata al 112 («Venite a prendere Messina Denaro: è qui») e che, addirittura, all’altro capo del telefono ci fosse proprio lui. Non credo che le cose siano andate così. Credo piuttosto che l’inchiesta – lunga, complicata, con intercettazioni che hanno scoperto la malattia del boss indirizzando i carabinieri nella clinica di Palermo – sia arrivata quando Matteo Messina Denaro era da molti mesi rassegnato.

Il cancro e la rassegnazione

Il cancro, la fuga sempre più difficile, la rete di protezione sempre più smantellata, addosso il fiato dei reparti antimafia più efficienti e agguerriti. Se non andassimo incontro a fraintendimenti, potremmo anche chiamarla resa, ma un arrendersi dolcemente al nemico, senza gesti plateali, senza patti né scambi.

Era stanco Matteo Messina Denaro, stava male. Sapeva che, prima o poi, l’avrebbero intrappolato. Da una parte c’è l’indagine come andava fatta, dall’altra c’è l’uomo che si stava spegnendo. È ragionevole pensare che la cattura di Matteo sia il risultato perfetto di circostanze intrecciate. Un amico, ieri sera, con arguzia mi ha fatto notare la “serenità” delle immagini che riprendono Matteo sulla scena, fuori dalla clinica, filmati ufficiali e amatoriali tutti molto soft, morbidi, senza tensione alcuna.

Quanto sia grave il suo tumore non lo sappiamo ma sostenere che il boss sia in perfetta forma mi pare azzardato. Quanta vita gli rimane? Tre mesi? Un anno? Dieci anni? Il tempo è decisivo. Perché tutti intanto si chiedono: parlerà o non parlerà, cederà o non cederà?

Vuoterà il sacco?

Interesse a svelare segreti, in teoria non ne ha. Tiene famiglia. Il fratello Salvatore, le quattro sorelle, i cognati, la madre Lorenza, la figlia Lorenzina. Se apre bocca consuma tutti. Anche economicamente, visto il patrimonio che ha accumulato con i suoi affari fra l’eolico e la grande distribuzione. Meglio stare zitti.

Ha pur sempre una reputazione da mafioso da difendere, soprattutto se è convinto che non abbia molto da vivere. Ma non si sa mai. La mente umana è imprevedibile e, chissà, se il boss di Castelvetrano non smentisca sé stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco.
La lista potrebbe comprendere: i mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993; le protezioni di cui ha goduto; l’archivio di Totò Riina che, secondo alcuni pentiti, sarebbe in suo possesso; le relazioni che ha intessuto con imprenditori in mezza Sicilia.
Primo punto. Con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano è l’unico ormai in vita (Leoluca Bagarella si è curato in Cosa nostra solo della macelleria) che conosce i segreti degli accordi stipulati da Totò Riina con «quelli di lassù», Roma e Milano, nell’anno e mezzo che separano Capaci e via D’Amelio dal fallito attentato all’Olimpico, passando naturalmente dal massacro dei Georgofili di Firenze del maggio 1993. È uno degli ultimi testimoni mafiosi di quella spaventosa stagione italiana.

Secondo punto. Per restare alla macchia trent’anni serve una montagna di denaro e protezioni di alto livello, che non possono includere soltanto quel centinaio di vivandieri che gli hanno assicurato riparo fra Castelvetrano e Marsala, fra Campobello e Palermo. Ci vuole ben altro per conquistarsi la libertà per oltre un quarto di secolo. Amici dappertutto, anche fra le forze di polizia. Spiate. Una singolare coincidenza – ma attenzione è solo una coincidenza temporale – è l'arresto che avviene appena un mese dopo l’entrata nel carcere milanese di Opera dell’ex sottosegretario all’Interno Antonino D’Alì, rampollo di un’aristocratica famiglia trapanese che con i Messina Denaro ha storicamente avuto stretti rapporti.

D’Alì è stato condannato definitivamente in Cassazione a 6 anni di reclusione per concorso esterno, doveroso ricordare però che il suo «essersi speso a favore dell’associazione denominata Cosa nostra» è cessato nel 2006. In trenta giorni, ecco la coincidenza, sono finiti tutti e due in galera.

Terzo punto. L’arma letale è il tesoro di Totò Riina, le carte che non sono state recuperate nella villa di via Bernini a Palermo perché una squadretta di mafiosi ha ripulito le stanze accuratamente grazie a un “disguido” dei carabinieri di Mori, che invece avrebbero dovuto sorvegliare ogni movimento intorno alla villa. «Ci sono cose da far tremare l’Italia», hanno confessato più collaboratori di giustizia ai procuratori di Palermo. L’archivio sarebbe nelle mani di Matteo. Una bomba. Se lo facesse ritrovare, ci sarebbe veramente di che scrivere.

Il giro dei soldi

Quarto punto. L’abbiamo sempre dipinto come il mafioso imprenditore che controllava ogni piccola e grande attività economica sul suo territorio. Se andiamo nell’area commerciale di Castelvetrano, appena fuori dallo svincolo autostradale della Palermo-Mazara del Vallo, si può fare una conta di chi è riuscito per esempio a piazzare il suo business proprio lì, nel regno di Matteo Messina Denaro pur provenendo da lontane zone dell’isola.
Se spulciamo gli atti della confisca del patrimonio – valutato un paio di miliardi (sì, miliardi) di euro dal tribunale per le misure di prevenzione di Trapani – di Carmelo Patti, morto qualche anno fa e patron del gruppo Valtur, colosso del turismo e considerato molto vicino a Matteo Messina Denaro, troveremo nomi e cognomi di imprenditori che rimandano ad altre sconce vicende siciliane dove gli affari si legano ai segreti, intesi come servizi e intesi come misteri.

A proposito di Carmelo Patti, in origine uno dei principali fornitori di componentistica elettronica della Fiat, un giorno del 1998 è ritornato in Sicilia per investire i suoi soldi. Il più famoso prestanome di Matteo Messina Denaro si è presentato al circolo della stampa del teatro Massimo esordendo così: «Dopo tanto tempo sono ancora qui perché, ormai, è evidente a tutti, che la mafia non c’è più». Che brutto vizio quello di negare. Porta anche male.

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