«La libertà è una parola che non può essere descritta. So solo che è una necessità, come si ha bisogno di acqua e cibo». Maysoon Majidi, attivista per i diritti umani e regista curdo-iraniana, parla della libertà dopo aver passato oltre 300 giorni di carcere in Italia. Fuggita dall’Iran con il fratello per la sua attività politica, ha vissuto prima nel Kurdistan iracheno per poi andare in Turchia, dove si è imbarcata per raggiungere le coste calabresi.

Ma appena arrivata in Italia, il 31 dicembre 2023, è stata arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: due persone su 77 passeggeri – poi diventate irreperibili – l’hanno inizialmente accusata di aver aiutato chi guidava l’imbarcazione. Nonostante gli accusatori non siano più stati sentiti, gli inquirenti hanno basato l’impianto accusatorio su queste testimonianze. Impianto che è stato sgretolato dal collegio del tribunale di Crotone, che lo scorso 5 febbraio ha assolto Majidi perché non ha commesso il fatto.

La detenzione e l’attivismo

Dal primo giorno l’attivista di 29 anni, ha definito le accuse della procura ingiuste: «Non mi aspettavo che in Italia si cercasse un trafficante su una barca di rifugiati», aveva detto a Domani. Il corpo è diventato esile per i ripetuti scioperi della fame fatti in carcere, che l’hanno portata a pesare 38 chili. Ma ha sempre rivendicato davanti ai giudici e di fronte alla procura la sua estraneità e ha ostinatamente smontato le accuse degli inquirenti, una a una. Oltre ad aver messo in luce le falle di un sistema che l’ha accusata, senza averle garantito i diritti che le spettavano: il diritto alla difesa e a conoscere le incriminazioni a suo carico in una lingua conosciuta. 

Per Majidi essere libere non significa solo non essere più in carcere: anche ora che non è più reclusa, «sente la mancanza di libertà». Uscita dalla cella «con uno sguardo diverso sul mondo» e senza alcuna pretesa di portare una trasformazione, ha però un sogno: «Fare qualcosa per l’articolo 12» del Testo unico sull’immigrazione, la norma che ogni anno criminalizza centinaia di persone migranti, accusate di aver fatto parte dell’equipaggio delle imbarcazioni che arrivano in Italia.

L’articolo 12

Secondo la narrazione del governo, sarebbero coinvolte nel traffico, ma spesso non hanno contribuito alla gestione della barca e, altrettanto spesso, hanno materialmente guidato senza avere nulla a che fare con il traffico di esseri umani. Dopo la strage di Cutro, il decreto Piantedosi ha ulteriormente aggravato la pena. Ora il rischio è di essere condannati fino a sedici anni di carcere e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo.

Amnesty International chiede che l’articolo 12 venga adeguato al protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, adottato nel 2000 e ratificato dall’Italia, che riconosce il traffico di esseri umani solo quando vi è un vantaggio economico. E che vengano introdotti canali di accesso legali e sicuri in mancanza dei quali i viaggi irregolari e il contatto con i trafficanti sono le uniche vie possibili per chi cerca di fuggire da contesti di crisi.

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