L’Italia è il primo paese in Europa ad aver approvato nel 2018 una legge che introduce il concetto di medicina di genere, ma la sua applicazione nella pratica clinica non è ancora sufficiente. Questo è ciò che emerge dal rapporto “Salute delle donne: benessere presente, crescita futura”, promosso da The European House-Ambrosetti (TEHA) a conclusione di un percorso di approfondimento e incontri tra membri della comunità medico-scientifica, associazioni di pazienti e persone esperte.

Se è vero infatti che le donne vivono più a lungo degli uomini, la qualità della loro vita è comunque peggiore: in Italia infatti trascorrono circa un terzo della loro esistenza in condizioni di salute compromessa, contro un quarto della vita degli uomini. Questa differenza è dovuta principalmente al fatto che a lungo la ricerca scientifica, lo studio dei corpi e la pratica clinica sono stati condotti e si sono basati su corpi maschili, e tutto ciò che è stato scoperto su di loro è stato poi adattato sui corpi femminili. La salute delle donne invece diventava rilevante solo in relazione agli aspetti riproduttivi e ginecologici.

Di conseguenza, tante patologie e manifestazioni cliniche sono state sottovalutate nella popolazione femminile, come nel caso delle malattie cardiovascolari che, nonostante siano ancora considerate a prevalenza maschile, rappresentano in realtà la prima causa di morte tra le donne in Italia.

Inoltre, i farmaci sono stati per tanto tempo testati quasi esclusivamente su soggetti maschili (e nello specifico su uomini bianchi dal peso corporeo di 70 chilogrammi) e comunque somministrati anche alle donne: da ciò deriva la maggiore incidenza di effetti collaterali nella popolazione femminile.

A influire sulla qualità della vita delle donne sono poi anche le differenze sociali, economiche e culturali legate al genere: un maggiore rischio di subire violenza, il lavoro di cura principalmente sulle spalle delle donne, le condizioni lavorative ed economiche più precarie sono tutti fattori che hanno un impatto sul loro benessere psicofisico.

Cosa manca, nonostante la legge

La legge del 2018 in Italia è stata pensata a partire da queste consapevolezze, nel tentativo di cambiare il modo in cui guardiamo alla salute delle persone. Dalla sua approvazione, tanto si è mosso a livello teorico. Nel 2019, infatti, è stato varato un Piano con gli obiettivi e le strategie per introdurre un approccio di genere nei vari ambiti di salute; nel 2020 è stato istituito un Osservatorio sulla medicina di genere. E nel frattempo molte società scientifiche hanno creato gruppi di studio interni con un focus sul tema.

L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha avviato programmi di monitoraggio sugli effetti dei farmaci sulle donne, mentre l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato delle linee di indirizzo sulla necessità di considerare i parametri del sesso e del genere nelle ricerche cliniche e precliniche. In questo nuovo approccio, sono state coinvolte le regioni, le università, le strutture sanitarie locali e i percorsi di formazione dei professionisti sanitari, nonostante poi la pandemia abbia anche rallentato il processo di cambiamento.

Come emerge però dal report, a mancare è ancora una consapevolezza piena, concreta e trasversale della necessità della medicina di genere. Molti studi clinici, ad esempio, continuano a confondere le definizioni di sesso e genere e non forniscono dati disaggregati per questi due parametri, per cui si rischia di sottostimare o non vedere affatto alcune differenze.

Inoltre, la presenza delle donne nei trial clinici resta insufficiente, dal momento che in Italia non supera il 20 per cento, mentre le ricerche sulle patologie a prevalenza femminile sono sempre fortemente sottofinanziate. Tanto poi è il lavoro che resta da fare in ambito di comunicazione, sensibilizzazione e formazione sia del personale sanitario sia della cittadinanza.

Protocolli personalizzati

Uno studio condotto da A.R.C.A. (Associazioni regionali cardiologi ambulatoriali) e citato nel report, ad esempio, ha fatto emergere che il 43 per cento delle donne non è consapevole del rischio cardiovascolare femminile e il 62 per cento di quelle che hanno un rischio elevato lo sottostimano. Dall’altro lato, molti professionisti sanitari invece ancora non tengono in considerazione il sesso e il genere della persona che hanno davanti quando prescrivono una terapia.

Se la legge italiana del 2018 sulla medicina di genere ha rappresentato un importante primo passo per rendere visibili i corpi a lungo marginalizzati, non è stata comunque abbastanza.

Come ha detto Daniela Trabattoni, direttrice dell’unità di Cardiologia invasiva e responsabile di Monzino Women al Centro cardiologico Monzino, in occasione della presentazione del report di TEHA, «abbiamo bisogno di una sensibilizzazione per protocolli che non siano colorati di rosa, ma personalizzati, per una medicina più puntuale e più adeguata».

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