A fine gennaio nel porto di Lampedusa una motovedetta della Guardia costiera ha portato in salvo 280 migranti. Un’operazione di salvataggio complicata soprattutto dalle condizioni del mare. Sette di loro non ce l’hanno fatta, sono morti a causa del freddo: tre sono stati ritrovati sul barcone partito dalla Libia dove viaggiavano stipati anche donne e bambini, mentre altri quattro sono deceduti durante i soccorsi delle autorità italiane. Sono andati in ipotermia, la temperatura corporea è scesa sotto i 35 gradi e non sono stati in grado di reggere al gelo.

Le testimonianze

Domani ha letto le testimonianze dei sopravvissuti raccolte da Concetta Feo, psicologa di Medici senza frontiere che, insieme a tre mediatori culturali, ha incontrato 80 superstiti, tra cui molti minori non accompagnati.

«Ero seduto vicino al mio amico che era agonizzante per il freddo», ha detto uno dei sopravvissuti. Quelle ore continuano a tornargli in mente e a occupare i suoi sogni. «Quando mi sono accorto che aveva perso i sensi ha provato a scaldarlo e rianimarlo massaggiando il suo corpo con dell’olio. Lo abbiamo spostato vicino al motore dell’imbarcazione nel tentativo di scaldarlo ma è morto tra le mie braccia per il freddo», ha raccontato il superstite. 

Sono partiti insieme dalla Libia dove per mesi sono stati stipati in prigioni strette e affollate. Al loro arrivo a Lampedusa il sindaco Salvatore Martello ha denunciato nuovamente l’abbandono totale dell’isola, ignorata dall’Italia e dall’Europa. Ma la morte di sette persone è diventata solo l’aggiornamento di un bollettino statistico. Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, ha parlato di «deserto delle coscienze».

«Siamo già oltre l’indifferenza, siamo all’ostilità perché si continuano a fare scelte precise per escludere. Muri e fili spinati... è il trionfo della disumanità, incalza il deserto delle coscienze. Quell'isola, e lo sappiamo ormai da troppi anni, piange spesso morti innocenti. A volte uno, a volte cinque, altre volte sette. Troppi in ogni caso», ha detto l’arcivescovo.

Per tornare a quelle ore, al viaggio, alla traversata dei migranti bisogna ascoltare le storie, i racconti dei testimoni che iniziano la loro avventura nelle prigioni libiche.

I lager libici

Il governo italiano resta spettatore delle tragedie che ciclicamente si consumano in mare e il tema si è eclissato anche nel dibattito pubblico. «La verità è che non è cambiato quasi nulla. Le capitanerie di porto, nonostante le competenze, hanno perso quel ruolo centrale nel soccorso. Certo non c’è più la propaganda becera, non c’è più una modalità urlata, ma questo paradossalmente rappresenta un aggravamento della situazione perché il tema non è più al centro del dibattito pubblico e il soccorso diventa solo una questione che discutono gli addetti ai lavori. Gli ostacoli restano gli stessi della stagione targata Salvini, la gravità è la medesima, i migranti continuano a morire in mare, ma tutto avviene nel silenzio generale», dice l’ex ammiraglio Vittorio Alessandro del comitato per il diritto al soccorso. Così è successo anche dopo il naufragio di fine gennaio. 

I 280 sopravvissuti venivano tutti dalla Libia, in molti hanno trascorso diversi mesi nei centri di detenzione dove sono stati regolarmente picchiati e costretti a farsi inviare dei soldi dalle loro famiglie per evitare violenze e pestaggi. Raccontano le condizioni nelle quali sono stati costretti a vivere: cibo una volta al giorno, la doccia una volta al mese e senza acqua anche per più di 24 ore.

Ricordano i luoghi di detenzione: stanze striminzite, piene di persone dove si faceva fatica anche a stare seduti. Anis, nome di fantasia, è bengalese. Ha vent’anni e ha lasciato il suo paese perché era povero, al lavoro il suo capo lo maltrattava, ha intrapreso il viaggio che lo ha condotto fino in Libia. Lì è rimasto per circa sette mesi in un centro di detenzione.

«Ho provato a lasciare la Libia già un’altra volta, ma in mare la guardia costiera libica ha intercettato l’imbarcazione e ci ha riportati indietro. Così sono stato costretto a pagare un altro riscatto e a chiamare la mia famiglia in Bangladesh per farmi inviare i soldi», ha raccontato.

Gli aguzzini usavano i cellulari dei prigionieri, contattavano i parenti e li inducevano a pagare per evitare conseguenze peggiori, maltrattamenti e pestaggi in diretta. In una delle telefonate il padre di Anis terrorizzato per la sua condizione non ha retto, è morto di infarto. Il secondo viaggio di Anis è quello che dalla città libica di Zwara lo ha portato in Sicilia il 25 gennaio scorso. E ovviamente non è partito da solo.

«Quando vivi in una stanza così stretta senza neanche riuscire a muoverti chi ti sta vicino diventa tuo amico, tuo fratello. Mi sono occupato di due minori, due ragazzi con i quali ho diviso il cibo nel centro di detenzione, sono partito insieme a loro e con noi c’era anche un altro amico», ha detto Anis. Tutti sono arrivati in Sicilia, ma il suo amico è morto durante il viaggio.

«Agonizzava per il freddo, ma io stesso ero talmente congelato che non riuscivo a muovermi, non ho potuto salvarlo». Il suo amico, all’improvviso, ha perso i sensi. Anis ha provato a scaldarlo e a rianimarlo massaggiandolo con l’olio, lo ha avvicinato al motore dell’imbarcazione per cercare di tenerlo al caldo ma inutilmente. Alla fine è morto tra le sue braccia.

Quando racconta la sua storia mostra il cappello che indossa, è il ricordo che lo lega al suo amico. Da quel giorno non dorme più, Anis si sente in colpa per non essere riuscito a salvarlo, continua a rivivere quei momenti e a rivederlo non appena tenta di dormire. Per molti dei sopravvissuti il problema è superare il trauma, hanno bisogno di parlare, di raccontare e metabolizzare il dramma.

L’incubo del viaggio

Foto AP

Un altro sopravvissuto ha ripercorso il suo viaggio. Prima di partire è rimasto in Libia per un mese e mezzo dentro una stanza piena di migranti mangiando una sola volta al giorno e aspettando la partenza come unica ragione di vita.

Quando ha incontrato il team di esperti di Msf muoveva nervosamente le mani, voleva liberarsi dei ricordi, raccontare quello che aveva visto. «Ogni volta che provo a dormire ho sempre lo stesso incubo. Sono solo su una barca alla deriva in mezzo al mare. Così rivivo tutta la paura, l’angoscia, il terrore provati durante il viaggio», ha detto Mamun, nome di fantasia.

Un viaggio interminabile, iniziato con i libici che con fucili e armi li costringevano a salire su un’imbarcazione fatiscente e inadeguata a trasportare quasi trecento persone. L’acqua da bere che i trafficanti consegnavano ai migranti era mista a gasolio e molti hanno riportato sintomi da lesioni e reflusso gastrico.

Dopo circa sette ore di viaggio la barca ha iniziato a cedere, si è ferma ed è scattato il panico. Poi è ripartita ma ha cominciato a imbarcare acqua. Dopo le prime chiamate di soccorso, i migranti hanno atteso ore prima dell’arrivo degli aiuti con l’imbarcazione della Guardia costiera italiana che li ha portati in salvo a Lampedusa. Tutti tranne quei sette, morti di freddo nel Mediterraneo a pochi chilometri dall’Europa.

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